Rompe il raggio di tremula aurora… Felice Bisazza fra tradizione e modernità

Vi dirò storia che toccami il cuore
Leggende e Ispirazioni

Nel 1841 Felice Bisazza aderisce compiutamente all’ideologia romantica pubblicando le Leggende e ispirazioni, opera che vuole essere espressione di un Volksgeist italiano e siciliano insieme: nella prima parte del volume troviamo infatti 22 racconti in versi, le Leggende, con le quali, afferma l’autore, "ritraendo spesso miserabili casi, ho cercato di presentare una parte elegiaca di qualche cronaca nostra, o di qualche curiosa o mirabil  credenza".

Elegia e storia, appello ai sentimenti e tradizione popolare si fondono in queste vicende altamente patetiche, raccontate utilizzando una forma poetica tipica del primo Ottocento, narrativa e lirica insieme: la ballata romantica. Una forma nuova e antica al tempo stesso: essa prende infatti a modello strutture metriche medievali che appaiono, secondo i teorici dell’epoca, più vicine alle modalità espressive italiane; anche i contenuti si rivolgono al passato, riproponendo quell’età feudale che era vista come origine delle tradizioni nazionali e insieme specchio della società moderna, attraversata da simili problemi e conflitti. Stile e lessico, infine, vogliono abbandonare la nobiltà e la compostezza neoclassica per avvicinarsi alla semplicità strutturale ed alla varietà del linguaggio comune.

Questo nelle intenzioni; nella realtà il genere risulta composito, incerto fra classicismo e modernità: alle strutture metriche più varie, che alternano misure tradizionali quali endecasillabo e settenario, e metri più espressivi, dalla forte ritmicità, come il decasillabo, si accompagna uno stile particolarissimo, in cui termini aulici sono accostati a vocaboli usuali, della più piatta quotidianità. Gli argomenti spaziano dalla storia agli eventi contemporanei, ma l’istanza realistica é talvolta frenata da un’attrazione verso il fantastico, il patetico, l’orrido.

Le ballate di Bisazza rientrano perfettamente nel genere: se abbondano, come é stato osservato, di "teschi, spettri, nivei gigli sul primo fiorir tagliati",  icone di una nuova retorica romantica che si sostituisce a quella classica, evidenziano anche un legame profondo fra il poeta e il proprio territorio, e insieme la volontà di diffonderne le vicende e la storia, reale o mitizzata che sia, in una forma accattivante che possa determinare la partecipazione emotiva del lettore

Francesco Dall’Ongaro, dalle pagine di La Favilla, periodico triestino da lui diretto fra il 1838 e il 1846, loderà le Leggende bisazziane: egli mostra di conoscere una delle fonti da cui vuol essere derivata la moderna poesia; le tradizioni e le canzoni del popolo. Altrettanto lusinghiero il giudizio di Giuseppe Pitré.

Certo, queste lunghe poesie narrative sono molto legate alla loro epoca: la lingua ibrida, in cui convivono senza problemi aulicismi e latinismi quali concento, fiede, face, acciari accanto a termini prosaici come faccia, sozzo, gli ingenui tentativi di creare un ritmo popolare, le onomatopee, i frequenti diminutivi e vezzeggiativi, il patetismo spesso eccessivo, fanno sorridere lo smaliziato lettore moderno.

Eppure le ballate bisazziane possono ancora suscitare un certo interesse; si tratta di testi innovativi, che tentano di creare un’epica moderna, abbandonando quel mondo mitologico settecentesco ormai lontano dal sentire della gente.

Particolarmente apprezzate all’epoca, come si é visto, le ballate storiche; esse hanno il merito di affrontare problemi nodali della Sicilia ottocentesca, quali il difficile rapporto con il potere, laico o religioso che sia, ma sempre tirannico, ingiusto, soffocante.

Bisazza esprime una sua personale visione anche rispetto alla tradizione favolistica, che aveva creato figure fantastiche e surreali quali l’uomo-pesce, oppure quando racconta le piccole tragedie quotidiane: la morte improvvisa e straziante dei più giovani, il dolore senza tempo provocato dal tradimento o dall’abbandono, la rottura dei legami familiari ad opera degli eventi bellici. Meno significative appaiono le leggende gotiche, che contribuiscono comunque a mettere in atto strategie narrative inedite, in cui la raffigurazione del fantastico fa finalmente esplodere  l’armonia classica dei testi poetici tradizionali. Siamo alla preistoria del genere noir, che dalla poesia passerà al romanzo e poi al cinema del Novecento.

Al di là dei difetti formali, dalle ingenuità stilistiche alle citazioni/calco,  alla mescidanza di aulico e triviale, difetti che mostrano una tale nonchalance verso la compostezza classica da scadere spesso in sciatteria, queste ‘leggende’conservano una loro vitalità, poiché fotografano il gusto e gli interessi di un’epoca, che cercava una maggiore autenticità del fare poetico, tentando da un lato di recuperare la fascinosa affabulazione di un Ariosto o di un Tasso, dall’altro di coinvolgere interamente il lettore, con la mente e con il cuore.

La ballata, forma bifronte, epica e lirica insieme, rilanciava la vocazione narrativa della migliore tradizione italiana, ed al tempo stesso voleva recuperare, in un’ottica romantica, la profondità psicologica e la capacità d’introspezione della poesia petrarchesca. Proponiamo alla lettura due ballate storiche, I Beati Paoli, Matteo Palizzi, una ballata legata al filone popolare, Colapesce, e infine un testo che racconta una tragedia moderna, La pazza.

 

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Cola Pesce
Felice Bisazza

Re dell’onda il suo trono é nell’onda,
e di nivee conchiglie ha corona

 

Legami naturali e vincoli sociali: Colapesce

 

E veniamo a Colapesce, la più tipica leggenda siciliana, intimamente legata ad un paesaggio dominato dal mare, forza meravigliosa e terribile; i misteriosi e profondissimi gorghi dello Stretto di Messina sembrano quasi generare col loro magico fascino questa figura ancipite dai tratti inquietanti: l’uomo pesce.

Affrontando il mito del giovane pescatore inghiottito dagli abissi Bisazza si trova di fronte ad una prova difficile: la tradizione scritta ed orale aveva infatti convogliato elementi eterogenei, provenienti dalle aree geografiche più disparate, e da epoche lontanissime, situate ai primordi della civiltà europea.

Se infatti il nome Nichola compare per la prima volta nella seconda metà del XII sec., nell’opera del poeta provenzale Raimon Jordan, e del soprannome Pesce troviamo una prima occorrenza nel Chronicon di Francesco Pipino, viaggiatore bolognese che narra alcuni fatti risalenti al 1239, già Plinio nella Naturalis historia parla di un uomo-marino che ispira terrore ai naviganti poiché ne capovolge nottetempo le navi. La leggenda ha una sua autonoma evoluzione in area inglese, fra il XII e il XIII secolo: il monaco Walter Mapes e Gervasius da Tilbury parlano di un Nicolaus dalle straordinarie capacità, che gli consentono di penetrare i segreti degli abissi marini.

Il primo a localizzare la vicenda in area messinese é fra Salimbene da Parma, che issa alcuni elementi chiave della tradizione: la maledizione della madre, che punisce nel figlio adolescente la troppa confidenza col mare condannandolo ad una doppia natura, umana e animale; la presenza dei gorghi, nei quali perisce Cola per l’insistenza del re, che lo costringe ad immergersi due volte per recuperare una coppa lanciata a sempre maggiore profondità.

Più nota, ed apprezzata anche per la sua squisita letterarietà, la versione di Gioviano Pontano, che immerge Colapesce in un mondo fantastico e sontuoso, popolato di Nereidi e Tritoni, trasformandolo di fatto in eroe mitologico.

 La storia dell’uomo-pesce acquista un respiro europeo dal Rinascimento in poi: la troviamo in Spagna, Francia, Grecia.  Gli scrittori siciliani accolgono tardivamente la tradizione: a parte i minori secenteschi Tommaso Fazello e Giulio degli Omodei, solo nelle opere di Domenico Tempio e Giovanni Meli il pescatore anfibio diventa un vero e proprio personaggio, ed il Settecento critico ed irridente aggiunge a questa figura dai contorni mitologici una significazione sociale: l’uomo-marino manifesta un totale distacco dai “terrestri”, distacco che si risolve in implicita critica diretta a stigmatizzare le pretese dei potenti.

Dal Mediterraneo il mito passa in area nordica, e già a metà Seicento il gesuita Athanasius Kircher, nella sua opera erudita Mundus subterraneus del 1655, descrive con dovizia di particolari un certo Pescecola, la cui natura appare più ittica che umana: dotato di polmoni capientissimi, che gli consentono di rimanere per un giorno intero sott’acqua, presenta membrane fra le dita per favorire la velocità nel nuoto.

Ma sarà Schiller a rendere fascinosa la storia, eliminando volutamente tutti i pesanti detriti della tradizione: privo di attributi ambigui Colapesce é solo un bel giovane ed uno splendido tuffatore, come recita il titolo della ballata, Der Taucher; il nucleo poetico del testo é costituito dalla raffigurazione del gorgo spumeggiante di Cariddi, emblema di una natura paurosa e selvaggia, ma insieme sublime. Degno di nota é l’introduzione del motivo erotico, che funge da controcanto a quello latamente politico: la bella figlia del re é promessa al tuffatore se questi affronterà le prove, e fra i due nasce un’indubbia attrazione che spinge la ragazza a criticare la prepotenza del padre: Lasst, Vater, genug sein das grausame Spiel! (Abbandona, padre, questo gioco crudele!).

Dalla Germania arriviamo all’Italia meridionale: é a Napoli ed in Sicilia, infatti, che la tragedia di Cola si consuma nelle forme più variegate, grazie ad una trasmissione orale ricca e significativa. 

Esaminando le versioni della leggenda riportate da Pitré possiamo individuare alcune costanti: é sempre presente il riferimento alle prove a cui il re sottopone Cola, ma é differente la motivazione; é raro che il sovrano agisca solo per imporre la propria volontà, più spesso é mosso dalla curiosità 'scientifica' di conoscere gli abissi marini, e a questa sete di sapere si collega la variante più diffusa del mito, che vede il pescatore costretto a rimanere sott’acqua per reggere una colonna pericolante che fa da puntello alla Sicilia.

Il protagonista di questo corpus di tradizioni popolari conserva ben poco d’umano: in effetti é un pesce antropomorfizzato, che soffoca se resta troppo a lungo sulla terra, e possiede i classici attributi ittici: aveva li jidita junciuti: chiddi di lu pedi puru comu chiddi di li aceddi d’acqua e li gargi comu li Pisci. Una figura potenzialmente inquietante, dai tratti mostruosi, che viene resa innocua diventando ‘socialmente utile’: negli Annali della città di Messina del 1756 Caio Domenico Gallo trasforma il mostro mitologico in postino del mare, affermando che il giovane aiutava i bastimenti in difficoltà portando messaggi e fornendo ai naviganti utili conoscenze relative ai fondali marini.

Siamo ben lontani dai gelidi e perversi abitanti di Innsmouth; fino al Novecento Colapesce é un individuo sicuramente eccezionale ma sostanzialmente benefico.

Ma qualche tratto della vicenda leggendaria ci fornisce una diversa chiave di lettura: nell’accanimento inspiegabile del sovrano, che di fatto uccide Colapesce, possiamo intravedere infatti il carattere perturbante e potenzialmente pericoloso dell’uomo anfibio: il re, come rappresentante degli umani, ha paura di colui che impersona un’altra linea evolutiva, una razza forse più potente.

E questo discorso ci riconduce alla ballata bisazziana, imperniata proprio sulle due figure antitetiche del giovane pescatore e del regnante. É evidente nel testo la volontà di fornire un’interpretazione dimessa e realistica del mito: Colapesce non é un ibrido uomo-pesce, non presenta dita palmate o squame non ha capacità natatorie fuori dal comune; é piuttosto un povero pescatore, costretto a misurarsi con le difficoltà della vita, i cui eccezionali poteri gli derivano da una profonda devozione. 
Nell’antefatto, che é del tutto originale rispetto alla tradizione, l’autore descrive  infatti un’impresa di Nicola, che, con l’aiuto della Madonna, salva un bambino abbandonato nel mare tempestoso. La presenza dell’essere soprannaturale sembra conferire al pescatore, saldo come una roccia in mezzo alla furia degli elementi, poteri incredibili; le straordinarie capacità di Cola sono dunque un dono divino.
Se il giovane pescatore é il protagonista indiscusso della ballata, di fronte a lui si staglia la figura del sovrano Federico II, pomposo, capriccioso, privo di principi morali. Lo scrittore lo presenta circondato da giocolieri, quasi a prefigurare il gioco crudele che Federico proporrà a Colapesce, un divertissement nel quale si alza sempre più la posta fino a farla coincidere con la vita stessa. Colpisce la gratuità assoluta del gioco, del grausame Spiel schilleriano: il sovrano/tiranno costringe il pescatore ad immergersi fino a profondità inverosimili, e questi perderà inevitabilmente la vita, subendo una sconfitta che si presenta nel testo come una “morte annunciata”; l’occhio invidioso e maligno del potere non accetta dai sudditi l’eccezionalità, l’evasione dalla norma.

In realtà Federico teme oscuramente il povero adolescente, vestito di un rozzo gabbano, poiché questi gli é superiore: il giovane é un prediletto da Dio, un predestinato alla grazia divina ed al suo contrario speculare, il martirio.

La vicenda di Colapesce, costretto ad una morte orribile per annegamento, é attraversata da una sottile simbologia cristologica, che é affidata per lo più, con felice intuizione poetica, a due potenti figure di madri: la prima, la Madre per antonomasia, ha salvato il bimbo dalle insidie del mare donandogli allo stesso tempo un rapporto privilegiato con l’elemento acquatico; la seconda, la madre biologica, accoglie nel suo abbraccio avvolgente, quasi simbiotico, il giovane che ha affrontato la prima prova imposta dal re Federico.

Le braccia della madre rappresentano un rifugio e simboleggiano il luogo incontaminato degli affetti primigeni, ancora non toccato dalla violenza delle istituzioni:

 

Quel che siede di frassini accesi

asciugandosi al pallido fuoco,

mentre i membri di freddo ha compresi

in solingo ma placido luoco,

egli é Cola, che muto riposa

fra gli amplessi di madre amorosa.

 

Ma il potere ha la forza di spezzare i legami naturali, e separa a forza la madre dal figlio, dando luogo alla scena più toccante della ballata: Colapesce non riemerge, i fratelli ritornano senza di lui, la madre li avvista da lontano; questa donna, umana e toccante nella sua vecchiaia disfatta, esprime una sofferenza senza scampo che rende evidente al lettore il martirio sotterraneo di Cola e consegna finalmente il messaggio di questa morte tanto attesa, affidato ad un urlo popolare ed universale insieme, negazione e conferma, tragicamente ossimorica, della maternità:

Maledette le viscere mie!

 

L’autore ci offre dunque un Colapesce inedito, spogliato della veste mitologica ma investito da una più complessa significazione religiosa, nella quale colpisce il protagonismo della figura femminile, che si sfaccetta nelle due immagini chiave: la mater salvifica e la mater dolorosa.

Bisazza decide di abbassare il mito, spogliandolo dagli elementi fantastici ed irreali, per collegarlo ad una tradizione religiosa ed ad un costume sociale vivo nella Sicilia del tempo: il culto mariano da un lato, la dominanza della figura materna nella cultura isolana dall’altro.

Colapesce, novello Cristo e martire, perde l’alone favoloso ma acquista in concretezza e pathos.

E se la ballata bisazziana può deludere il lettore moderno, per la prolissità, per lo stile incerto fra reminiscenze dantesche, aulicismi, e sintassi popolareggiante, resta nella memoria questo giovane d’un rozzo gabbano coperto, ucciso dal grausame Spiel diuna civiltà che impone all’uomo ruoli e funzioni assurdi e impossibili, tali da polverizzarne la personalità.

 

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Daniela Bombara

 

Una lettura completa del saggio, con le ballate
I Beati Paoli, Matteo Palizzi, La Pazza, Cola Pesce

e note critiche, si ha nel pdf

Rompe il raggio di tremula aurora… Felice Bisazza fra tradizione e modernità
 
a cura di Daniela Bombara

 

     

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