Eneide
Libro III

Scilla e cariddi

 

 

[...]

Quinci partito, allor che da vicino
Scorgerai la Sicilia, e di Peloro
Ti si discovrirà l’angusta foce,
Tienti a sinistra, e del sinistro mare
Solca pur via quanto a di lungo intorno
Gira l’isola tutta, e da la destra
Fuggi la terra e l’onde. È fama antica
Che questi or due tra lor disgiunti lochi
Erano in prima un solo, che per forza
Di tempo, di tempeste e di ruine
(Tanto a cangiar queste terrene cose
Può de’ secoli il corso), un dismembrato

Fu poi da l’altro. Il mar fra mezzo entrando
Tanto urtò, tanto róse, che l’esperio
Dal sicolo terreno alfin divise:
E i campi e le città, che in su le rive
Restaro, angusto freto or bagna e sparte.
Nel destro lato è Scilla; nel sinistro
È l’ingorda Cariddi. Una vorago
D’un gran baratro è questa, che tre volte
I vasti flutti rigirando assorbe,
E tre volte a vicenda li ributta
Con immenso bollor fino a le stelle.
Scilla dentro a le sue buie caverne
Stassene insidïando; e con le bocche
De’ suoi mostri voraci, che distese
Tien mai sempre ed aperte, i naviganti
Entro al suo speco a sè tragge e trangugia.
Dal mezzo in su la faccia, il collo e ’l petto
Ha di donna e di vergine; il restante,
D’una pistrice immane, che simíli
A’ delfini ha le code, ai lupi il ventre.
Meglio è con lungo indugio e lunga volta
Girar Pachino e la Trinacria tutta,
Che, non ch’altro, veder quell’antro orrendo,
Sentir quegli urli spaventosi e fieri
Di quei cerulei suoi rabbiosi cani.

Oltre a ciò, se prudenti, se fedeli
Sembrar ti può che sian d’Eleno i detti,
E se scarso non m’è del vero Apollo;
Sovr’a tutto io t’assenno, ti predico,
Ti ripeto più volte e ti rammento,
La gran Giunone invoca: a Giunon voti
E preghi e doni e sacrifici offrisci
Devotamente; chè, lei vinta alfine,
Terrai d’Italia il desiato lito.

 

 

[...]

 

E prima il tarentino erculeo seno
(Se la sua fama è vera) a vista avemmo;
Poscia a rincontro di Lacinia il tempio,
La ròcca di Caulóne e ’l Scillacèo,
Onde i navili a sì gran rischio vanno.
Indi ne la Trinacria al mar discosto
D’Etna il monte vedemmo, e lunge udimmo
Il fremito, il muggito, i tuoni orrendi

Che facean ne’ suoi liti e ’ntorno a’ sassi
E dentro a le caverne i flutti e i fuochi,
Al ciel ruttando insieme il mare e ’l monte
Fiamme, fumo, faville, arene e schiuma.
Qui disse il vecchio Anchise: È forse questa
Quella Cariddi? Questi scogli certo,
E questi sassi orrendi Eleno dianzi
Ne profetava. Via, compagni, a’ remi
Tutti in un tempo, e vincitori usciamo
D’un tal periglio. Palinuro il primo
880Rivolse la sua vela e la sua proda
Al manco lato; e ciò gli altri seguendo,
Con le sarte e co’ remi in un momento
Ne gittammo a sinistra; e ’l mar sorgendo
Prima al ciel ne sospinse; indi calando,
Ne l’abisso ne trasse. In ciò tre volte
Mugghiar sentimmo i cavernosi scogli,
E tre volte rivolti in vèr le stelle
D’umidi sprazzi e di salata schiuma
Il ciel vedemmo rugiadoso e molle.
ravam lassi; e ’l vento e ’l sole insieme
Ne mancâr sì, che del viaggio incerti
Disavvedutamente a le contrade
De’ Ciclopi approdammo. È per sè stesso
A’ venti inaccessibile e capace

 


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