La vera storia di Colapesce - Flavio Minelli - Roma - 2009
Adattamento grafico

 

LA VERA STORIA DI COLA PESCE

 

PREMESSA
Una volta, tanto tempo fa, prima di internet, prima della televisione e della radio, perfino prima dei libri stampati e dei giornali, le storie e le notizie le raccontavano i cantastorie. Questi uomini in continuo movimento tra paesi e città raccoglievano i racconti della tradizione e le novità e le andavano riportando nei paesi vicini, spesso arricchendole artisticamente con dettagli non proprio fedeli all’originale.
La storia di Cola Pesce era una di quelle preferite dai cantastorie siciliani, ne esistono decine di versioni, tutte diverse, e si raccontava perfino in Campania.
Oggi che i cantastorie non ci sono più tutte queste storie si trovano nei libri che raccolgono fiabe e leggende d’Italia e se siete curiosi potete andare a leggervele.
Io vi voglio invece raccontare la vera storia di Cola, una volta che tutti gli abbellimenti artistici e i riferimenti a personaggi storici, re e regine, siano stati rimossi: la storia di un ragazzo come tanti ma con una particolarità che lo rese unico e lo fece diventare una leggenda.

 

 

UN BIMBO SPECIALE
Dunque, c’era una volta una coppia di umili siciliani che viveva nei pressi dello stretto di Messina. Antonio era pescatore e Santina, come tutte le sua amiche e conoscenti, curava la casa, cresceva la famiglia e coltivava un po’ di orto con cui integrare il frutto del lavoro del marito.
Avevano già altri figli, maschi e femmine, quando in una limpida e fredda giornata d’autunno nacque
Nicola, con la camicia. Non intendo dire che nacque particolarmente fortunato, anche se alla fine qualcuno potrà pensare che tutto sommato fu così, ma proprio che venne al mondo con il corpo ricoperto da una specie di materiale giallino, elastico e un po’ appiccicoso, che nel giro di qualche giorno si asciugò e sparì.
Allora non c’erano certo ospedali e cliniche e i pochi medici, dalle scarse conoscenze, si trovavano solo al servizio dei ricchi e dei potenti. I figli del popolo nascevano in casa, dove la partoriente era assistita dalle sue vicine o amiche e in particolare da una anziana che rivestiva nella zona il ruolo di levatrice o, come la chiamavano da quelle parti, “mammana”.
La donna che assisteva Santina, visto il bambino appena nato, si affrettò a pronunciare parole di sorpresa e di gioia, assicurando alla madre che la presenza di questa “camicia” era un fatto sorprendente e meraviglioso, che assicurava al maschietto un futuro di fortuna e di felicità, ma il suo sguardo diceva altro.
Comunque si affrettò a fare quel che doveva, lasciano poi il bimbo nelle braccia della mamma, e questa alle cure delle sue amiche.
Quando, dopo pochi giorni, la “camicia” sparì Mamma Santina si accorse subito che c’era qualcosa che non andava: il bimbo aveva la pelle secca e spessa, faceva fatica a prendere il latte perché le sue labbra sembravano non riuscire a chiudersi bene, così come gli occhi che restavano sempre un po’ aperti, anche mentre dormiva.
La povera donna era sola, Antonio era in mare, e lei aveva paura che le vicine potessero pensare che un bambino così strano fosse frutto di qualche maledizione, di un peccato dei suoi genitori o perfino di una sua innaturale infedeltà.
D’altra parte a quei tempi le cose andavano così, nessuno dei suoi conoscenti aveva mai visto un libro se non, a Natale e a Pasqua, la Bibbia nelle mani del Parroco che diceva messa in quella lingua a loro sconosciuta, figuratevi leggere o scrivere. Lo studio era una occupazione per chi non doveva preoccuparsi di mettere in tavola qualcosa ogni giorno e gli episodi della vita venivano valutati sulla base della sola esperienza, unita agli insegnamenti della tradizione orale, trasmessa di madre in figlia.
Quello che questi genitori non potevano dunque nemmeno immaginare – e che riguardava Nicola – era che questa sua caratteristica gli era stata trasmessa da loro stessi che l’avevano dentro di sé, anche se non si vedeva
(1).

A quei tempi ogni evento fuori dall’ordinario poteva essere preso come un messaggio soprannaturale o una minaccia per la comunità, e nella lotta per la sopravvivenza non ci si curava molto dei deboli o dei diversi, e al bimbo stava venendo una pelle molto strana, scura e spessa, piena di squame grandi e pronunciate. Mamma Santina cercò quindi di nascondere la particolarità del piccolo Nicola, e si sforzò di affrontare la situazione. Il modo glielo suggerì accidentalmente la figlia Lucia quando, mentre metteva in tavola la cena, si fermò a giocare con il fratellino e senza volere gli versò addosso una bella dose di olio di oliva.
Ora, in Sicilia l’olio non era costoso come altrove, ma comunque non era una cosa da sprecare così, e la piccola Lucia si prese dalla mamma una bella strigliata, non appena questa ebbe finito di ripulire sommariamente Nicola da tutto quell’unto.
Il giorno dopo, però, Santina si accorse che il bimbo aveva la pelle, dove era finito l’olio e dove lei l’aveva strofinato con uno straccio, molto più liscia e morbida, con le squame che si notavano molto meno.
Da allora una parte della piccola scorta di olio fu dedicata a ungere il corpo di Nicola, tutte le volte che la mamma se ne ricordava o quando il piccolo si lamentava di più. Infatti questo trattamento non sembrava solo essere utile all’apparenza della sua pelle, ma era anche evidentemente un momento di grande piacere per lui, quando la mamma gli dedicava qualche minuto del suo tempo in esclusiva, per massaggiarlo con l’olio finché non si fosse completamente assorbito.
Anche a Santina, che non aveva mai capito come fosse potuto accadere che a suo figlio fosse venuta una pelle così, faceva piacere carezzarlo, anche se aveva sempre paura di fargli male e se continuava a ripensare a tutto quello che aveva fatto e detto durante la gravidanza, in cerca di una sua colpa, una omissione o una voglia che avesse portato a questo risultato.
Papà Antonio era rimasto anche lui molto colpito quando, al suo ritorno da una pesca particolarmente fruttuosa, aveva trovato il nuovo nato nelle braccia della moglie. Era felice che tutto si fosse svolto senza inconvenienti, come spesso allora capitava, ma neanche lui poteva spiegarsi il perché della pelle di questo ultimo figlio, e in fondo in
fondo pensava anche lui che quella potesse essere una punizione per qualcosa che Santina poteva aver combinato e si sentiva poco a suo agio con il bambino.
Ma i papà di allora non avevano molto tempo da trascorrere con i loro figli piccoli, le cure della mamma erano sufficienti, e loro dovevano pensare a procurare il cibo per tutta la famiglia.
Solo quando sarebbe stato più grandicello Antonio avrebbe iniziato a portarlo sulla barca con sé, come già faceva con i suoi fratelli più grandi, e a insegnargli il mestiere.

Cola, come venne presto soprannominato il bambino, crebbe quindi in casa con la
mamma i fratelli e le sorelle. Più con le sorelle che con i fratelli, dato che questi ultimi iniziavano presto a fare lavoretti fuori di casa, nelle campagne o con qualche artigiano del paese, in attesa di poter andare a fare i pescatori come Papà; le sorelle invece aiutavano la mamma in casa, cucivano e facevano ceste di vimini da vendere al mercato.
Alla mamma non dispiaceva che Cola stesse con loro perché preferiva tenerlo lontano dagli occhi dei paesani, sempre pronti a parlar male e a giudicare. La voce che “l’ultimo figlio di ‘Ntoni e della Santina è un bambino strano” correva però lo stesso.
Antonio e Santina erano d’altra parte già di mezza età e avevano figli a sufficienza e fu così che non ne ebbero altri.

 


COLA  PESCE
Quando Cola fu grande abbastanza da poter nuotare la mamma lo lasciò andare coi fratelli a fare il bagno alla spiaggetta di fronte alla casa, dove Antonio tirava in secco la sua barca al ritorno dalla pesca. Non c’era da preoccuparsi, perché era al riparo dalle correnti e i fratelli tenevano d’occhio il più piccolo con attenzione.
L’incontro con il mare fu un momento importante per Cola: nonostante l’olio della mamma lo si poteva vedere spesso aggirarsi per casa con fare un po’ rigido e muovendo poco braccia e gambe.
In particolare d’inverno, quando il vento freddo e secco sembrava entrare dappertutto, la pelle di Cola si spaccava e le squame diventavano così evidenti che perfino alla mamma faceva venire in mente una la pelle di una lucertola o di un pesce.
Ma quando Cola iniziò a frequentare la spiaggetta le cose cambiarono ancora: fuori di casa, tra sole, sabbia e acqua di mare la sua pelle sembrava un’altra, molto più sottile, con l’abbronzatura che sostituiva l’usuale scuro delle squame, più morbida e compatta.
Lui stesso si rendeva conto di stare molto meglio, anche se non avrebbe saputo dire perché, e passava quindi la maggior parte del tempo a mollo a pochi metri dalla battigia, raccogliendo dal fondo conchiglie e saporiti molluschi e guardando i pesciolini che gli passavano tra le gambe.
Solo quando il sole era più forte stare all’aperto diventava per lui una sofferenza, dato che per quanto caldo facesse non sudava mai e la testa iniziava a fargli male. Ma anche per questo il mare era la sua cura ideale: gli bastava gettarsi a capofitto tra le onde e lasciare che l’acqua lo rinfrescasse a dovere prima di tornare a casa per il pranzo o per la cena.

Così Cola finì per crescere più nell’acqua che fuori, estate o inverno.
Alla mamma non dispiaceva ed essendo l’ultimo – be’ – capita spesso che gli ultimi nati in una grande famiglia siano un po’ viziatelli…
Comunque Cola era diventato oramai un asso del nuoto, si era fatto due spalle così grazie a tutto quell’esercizio e riusciva a battere tutti in resistenza, nell’apnea e nella profondità a cui riusciva ad immergersi. Anche i paesani avevano ormai fatto l’abitudine a vederlo spuntare nel porticciolo dal paese, come se fosse un delfino curioso, e non lo ritenevano più tanto una minaccia o una premonizione quanto una presenza caratteristica, oggi diremmo un’attrazione.
Quelli di loro che si spostavano verso i paesi vicini, un paio di mulattieri, qualche commerciante ambulante e ovviamente la levatrice che l’aveva portato al mondo, iniziarono a parlare di Cola anche a gente di fuori tanto che – riprendendo magari il discorso lasciato in sospeso per concludere l’affare – si sentivano chiedere “Cola chi?” e rispondevano
Cola Pesce!”, per capirsi, e da lì venne il nome con cui il giovane iniziò ad essere conosciuto per il Regno (2).

Con il passare degli anni Cola ampliò sempre di più il raggio delle sue escursioni marine, arrivando senza particolare sforzo a Messina o a Scilla, in Calabria, attraversando lo stretto nonostante le correnti, temute dai pescatori ma che lui conosceva perfettamente, e anzi spesso perfino con il loro aiuto. Era amico dei delfini che vivevano in quel tratto di mare, dividendosi il pesce abbondante con i pescatori, e passava con loro tutto il tempo che poteva.
A terra invece si sentiva poco a suo agio, “un pesce fuor d’acqua”, potremmo dire. I suoi capelli erano pochi e radi, anche se era solo un ragazzo, e la sua pelle che rimaneva strana non lo aiutava a fare amicizia con i ragazzi del paese o delle coste che frequentava. I bambini, nella loro sincerità, possono essere a volte poco gentili ma quelli che erano davvero  antipatici erano quasi sempre gli adulti, che lo scacciavano con male parole, gesti di scongiuro o minacciando di prenderlo a sassate, spaventati nella loro stessa incapacità di comprendere e accettare un’apparenza così diversa dalla loro.
Cola insomma si sentiva solo e poco amato, salvo che dalla mamma e dai suoi fratelli e sorelle, ma Santina si faceva anziana, i fratelli lavoravano tutti, col padre, in paese o nelle campagne e le sorelle, anche l’amata Lucia, non erano quasi mai a casa dei genitori, chi sposata, chi a servizio.
Antonio aveva anche lui rinunciato a insistere perché Cola imparasse un mestiere o che venisse con lui a pesca: a terra non ci sapeva stare, sempre a disagio, lamentandosi perché la pelle gli dava noia, e in barca – dove sarebbero magari state utili le sua grandi capacità di nuoto – era più un problema che altro perché non poteva soffrire di vedere i tanti pesci immangiabili morti inutilmente sul fondo della barca o all’amo.
Una volta che avevano salpato una rete trovandoci un delfino annegato, uno dei suoi amici fidati, era scoppiato a piangere e dopo aver cercato di rianimarlo ignorando i richiami del padre aveva abbandonato la barca in mezzo al mare, andando via a nuoto e rimanendo lontano da casa per una intera settimana, nutrendosi di quello che il mare gli offriva in abbondanza.

 

 

LA BELLA
Le storie che riferiscono la leggenda di Cola Pesce parlano poco di tutto quello che vi ho detto finora e molto di come la vicenda andò a finire.
Mettono nel racconto una Regina (sempre bella come tutte le regine: belle ma non sempre buone) o l’Imperatore Federico
(3), maledizioni familiari e tanto altro. D’altra parte il lavoro dei cantastorie di cui parlavo all’inizio era quello di trasformare le notizie del giorno in storie senza tempo, in modelli di comportamento a cui riferirsi, strumenti per educare il popolo e i potenti, creando racconti popolari che lasciassero a chi li ascoltava un insegnamento morale.(4)

C’era comunque davvero una nobildonna, bella e annoiata, e c’erano dei cavalieri, eleganti e desiderosi solo di compiacere la bella per ottenerne l’amore, di quelli che ogni tanto arrivavano fino alla spiaggia di Cola a vedere il portento dell’Uomo-pesce, di cui avevano sentito parlare dai servi di palazzo.
Avendo sentito dire che Cola era nel porto di Messina, la Regina arrivò a cavallo sul molo, col suo seguito di cavalieri e dame, rivolgendosi a lui senza nemmeno mettere piede a terra. Nessuno di loro poteva credere che ci fosse qualcuno che conduceva una vita felice lontano dagli altri esseri umani, senza dominare né essere dominato, libero nel grande mare, senza possedimenti e senza leggi se non quelle della natura.
Cola era davvero contento di fare la vita che faceva, l’unica che sentisse adatta a sé, ai suoi desideri e al suo corpo così speciale, ma non era felice. Gli mancava proprio la vicinanza degli altri, avrebbe voluto fare amicizia con giovani come lui,  passeggiare ogni tanto con qualche bella ragazza che invece si limitava ad  osservare sui moli di paese o a spasso sulle spiagge con gli amici, ma non sopportava le parole di scherno, le occhiate che tutti gli rivolgevano, un po’ curiose, un po’ impaurite.
E fu così che dopo che si furono osservati reciprocamente per un pezzo la bella Regina gli rivolse la parola:
– Saresti dunque tu l’Uomo-pesce, quello che chiamano ‘Cola ‘u pisci’?

A Cola sembrava incredibile che una così bella donna, una nobile, si interessasse a lui e si era perso a guardarla, desiderando di poterla conoscere meglio e magari poterle mostrare qualcuna delle meraviglie del mare di Sicilia.
- Si mia Signora – rispose infine – mi chiamo Cola e sono figlio di ‘Ntoni, il pescatore

Non sapeva cosa dire, in verità, e non riuscì a tirare fuori nulla di più. Un sorriso le increspò le labbra, facendola apparire agli occhi di Cola ancora più bella.
– Un pesce figlio di un pescatore, ma guarda un po’!

I giovanotti che la circondavano, come a comando, scoppiarono a ridere, scambiandosi rumorose battute dalle quali Cola udì emergere solo le parole “creatura mostruosa” Si sentì arrossire, e per nascondere la sua rabbia e il suo imbarazzo fece un tuffo immergendosi verso il fondo del porto. Mentre nuotava intravide un’ostrica perlifera e la prese per le valve prima che si chiudesse, forzandola a cedere la bellissima perla che portava dentro di sé. Riemerse un po’ più lontano, si riavvicinò a nuoto e andò a depositare la perla ai piedi della cavalcatura di lei dicendo:
– O mia Signora, ti faccio dono di questa perla. E’ l’unica cosa che mi sembra adatta alla tua bellezza.

Era sorpreso lui stesso del suo ardimento, ma lo furono anche la bella e i suoi amici solo che mentre lei si limitava a sollevare un sopracciglio sorridendo ancora al complimento, a cui era peraltro abituata, uno dei giovani commentò ad alta voce:
Toh, il mostro si è innamorato!, suscitando ancora l’ilarità generale.

Cola guardò la bella sperando in una parola in sua difesa, ma non ne venne alcuna.
Invece lei gli si rivolse dicendo:
– Uomo-pesce, mi dicono che tu sia in grado di immergerti a profondità mai raggiunte e di nuotare sott’acqua come un vero pesce. Sono curiosa, voglio vedere se è vero.

Si sfilò dunque dal dito indice un anello con una pesante pietra e disse:
– Senti. Io voglio che tu recuperi questo anello quando lo lancerò in acqua, vediamo quanto sei bravo. Se tu me lo riporti può anche darsi che io venga di nuovo a trovarti.

Cola, assentì senza parlare, incredulo. Avrebbe fatto di tutto per compiacerla e ancor di più per poterla rivedere. Lei prese l’anello in mano, considerando che tanto non le piaceva neanche molto, e lo lanciò all’improvviso da una parte, pochi metri più in là. Cola non aveva seguito la traiettoria ma vide i cerchi che si allargavano e d’altra parte le acque del porto non erano neanche molto profonde. Non ci mise più di mezzo minuto a recuperare l’anello, che ancora scendeva lentamente verso il fondo.
I cavalieri erano ammutoliti all’ardita offerta della giovane ma nessuno aveva saputo dire niente. A quel punto però uno disse:
Troppo facile, ci sarei riuscito anche io a riprenderlo – cosa di cui Cola dubitava, osservando l’aspetto poco atletico dell’altro – voglio lanciarlo io, stavolta.

Ricevuto l’anello scese da cavallo, prese la rincorsa e lo lanciò dritto davanti a sé, ben più lontano. Le acque del mare di fronte al porto erano molto profonde, e se il lancio avesse superato lo scalino di roccia che Cola sapeva essere lì l’anello si sarebbe perso in profondità che neanche lui avrebbe potuto mai raggiungere.
Nuotò dunque velocissimo verso il punto in cui l’anello era affondato e si immerse prima ancora di arrivarci, continuando a pinneggiare con i piedi e cercandolo con lo sguardo. Un riflesso della pietra lo salvò prima che si perdesse alla vista e con un ultimo sforzo riuscì a raggiungerlo, sul fondo. Tornando indietro sollevò il pugno mentre nuotava per mostrare il successo, sentendosi felice.
La bella non aveva però alcuna intenzione di tornare a mettere gli occhi sull’Uomo-pesce che per lei aveva già perso ogni interesse. Chiamò quindi con un cenno un altro dei suoi amici, che si dilettava nell’antica pratica della caccia con la fionda.
(5)
Prendi – gli disse – e vedi di fare un buon lancio, il tuo amico ha le braccia deboli.

Il secondo giovane scese da cavallo e prese un sasso, infilandolo nell’anello. Prese la sua fionda e ci mise l’anello con il sasso. La manovra era stata vista da Cola, che guardò ancora la ragazza, muto.
– Cos’è, hai paura di non farcela? - disse lei solamente.

Cola si rese conto di essere per lei nient’altro che un breve passatempo, un cane a cui si tira un bastone per farselo riportare, un essere privo di qualunque importanza, e si sentì avvampare ancora una volta, vedendo deluse tutte le sue speranze e la felicità che aveva brevemente assaporato evaporare.
Lacrime di rabbia scesero sulle sue guance, liquido salato che si andava a mescolare con il sale del mare. Possibile che non ci fosse nessuno al mondo disposto ad accettarlo e a trattarlo come suo simile?
E sia – rispose – ma se non riuscirò non mi vedrai più.

Lei non rispose.
Il fromboliere aggiustò la sua arma e con un rapido movimento del potente braccio scagliò sasso e anello ad una tale distanza che non si riuscivano quasi più a distinguere. Cola scattò, con la volontà di riuscire a recuperare l’anello e a riportarglielo anche se a lei non interessava;  lo avrebbe fatto per sé, a costo di morire.
Sapeva che era finito dove il mare era senza fondo ma sperava di raggiungerlo ancora una volta prima che sparisse. Non aveva tenuto conto però del sasso, che fece scendere l’anello velocemente nelle acque verdi e profonde, senza lasciargli il tempo di raggiungerlo.
Cola nuotava con foga, desiderando di morire. Nuotò per un minuto, per tre, per cinque, sempre più in profondità.
Nel frattempo a riva la bella e i suoi amici avevano già dato volta ai loro cavalli e si erano riavviati verso la città. Quel “non mi vedrai più” di Cola l’avevano interpretato come la volontà di morire tentando l’impossibile impresa di recuperare l’anello e con esso l’apprezzamento dei suoi simili ed erano convinti che non sarebbe tornato mai più in superficie.
(6)
Ma loro non erano suoi simili, perché lui non era per loro parte del genere umano e non gli interessava che l’Uomo-pesce vivesse o no.
Il silenzio della superficie marina era pari solo al vuoto negli animi di quelle persone che
non avevano voluto o saputo vedere oltre l’apparenza.

UN NUOVO MONDO
Dopo sette minuti che scendeva sempre più in profondità Cola aveva raggiunto la zona abissale dove il buio è totale, dove non era mai stato, dove non poteva trovare nulla di familiare. A quel punto non ce l’avrebbe fatta comunque, neanche se fosse tornato su immediatamente.
Ad un certo punto notò con la coda dell’occhio un barlume di luce, per un attimo: poteva essere l’anello! Non sarebbe servito a niente e non l’avrebbe mai riportato a galla, ma seguì la luce mentre l’aria nei suoi polmoni stava oramai per esaurirsi.
Continuava a nuotare mentre la vista gli si oscurava quando credette di sentire l’acqua cambiare temperatura, passare dal freddo glaciale delle profondità ad un dolce tepore e gli sembrò di entrare in un cerchio di luce, mentre qualcosa gli impediva di muovere braccia e gambe.
Cercò di lottare…
Quando riaprì gli occhi si accorse di riuscire a respirare normalmente ma anche di trovarsi ancora sott’acqua; non se lo spiegava, ma l’acqua entrava e usciva dai suoi polmoni come se fosse aria, consentendogli di vivere.
C’era luce, ma non veniva dal Sole, e c’erano delle persone che lo guardavano con simpatia aspettando che si riprendesse. Avevano qualcosa di strano, di particolare, anzi, ciascuna aveva qualcosa di particolare rispetto alle altre, non ce n’erano due uguali, come se la diversità delle loro personalità si riflettesse in fattezze diverse: era fantastico. Cola non riusciva a capire, avrebbe dovuto essere affogato, o forse lo era e questo era un altro mondo, dopo la morte…
– Dove sono? – disse un po’ a sé stesso, un po’ a loro – che posto è questo e cosa ci faccio io qui?
– Tranquillo, sei il benvenuto, qui – gli rispose una di esse, una ragazza all’apparenza circa della sua età, con una pelle simile alla sua ma rossa come il corallo e con dei lunghi capelli simili ad alghe – noi ti conosciamo, è tanto che i delfini ci hanno parlato di te, ma noi non veniamo lassù dove ci sono gli uomini asciutti con le loro reti, i loro vestiti e la loro cattiveria, stiamo lontani da loro e ogni tanto ci incontriamo tutti
qui, al sicuro.

E da dove venite? Come siete arrivati qui, voi? -  Non poteva credere ai suoi occhi.

- Ciascuno di noi ha la sua storia, ognuna diversa dalle altre. Tutti abbiamo creduto di non avere niente al mondo, di non poterci mai legare, di non poter condividere niente con gli altri. Poi abbiamo trovato questo posto, chi prima, chi dopo.
Qui tutti sono diversi, ciascuno a modo suo, e quindi non ha senso cercare di fare differenze, di separare uno dagli altri. Sappiamo tutti cosa significa sentirsi isolati, non amati, non voluti, e quindi siamo tutti pronti a riconoscerci e a sostenerci l’un l’altro. Ci fanno pena gli uomini asciutti, che passano la vita a cercare di fare castelli di sabbia e a tracciare linee di confine per separare le cose e le persone.
Qui invece non costruiamo barriere artificiose, e siamo sempre pronti a seguire una nuova corrente marina, quando la scopriamo. Abbiamo imparato anche che queste nostre paure sono spesso il frutto del nostro stesso sentirci separati dagli altri e qui abbiamo capito di non esserlo davvero e di dovere solo, con pazienza e fiducia, trovare quelle persone in grado di esserci davvero amiche.


Cola era ancora sbigottito. Questo era quello che avrebbe sempre voluto avere: amici con cui confrontarsi e con cui vivere in serenità. Aveva paura di chiedere, persino paura di muoversi, forse per timore che se l’avesse fatto tutto sarebbe di nuovo scomparso.
– E posso restare? Per quanto? Vorrei…

– Certo che puoi restare, nessuno ti manderà via, saremo felici anche noi se vorrai restare, ma nessuno neanche ti vorrà trattenere se tu non vorrai rimanere. Sappi però che noi ci troviamo tutti qui solo raramente: questo è un rifugio, ma non una abitazione permanente, è un luogo dove ricaricarsi e trovare nuove amicizie, dove dare risposta ai nostri dubbi ma poi – dopo esserci ritrovati, confortati e salutati – ciascuno va per la propria strada, in giro per i sette mari, a conoscere le cose e a cercare altri che come noi sappiano andare oltre le apparenze, senza stare a preoccuparci di chi non sa vedere oltre il proprio naso.
Sappiamo che le scelte di una persona devono essere le sue, raggiunte e accettate con il tempo e il modo che richiedono, ma non hai motivo per rimanere lontano da chi ti vuole bene. Vedrai però per chi è arrivato il fondo al mare, all’essenza delle cose, non c’è più timore, non c’è insicurezza, ci si accetta per ciò che si è e si aspetta con pazienza che altri come noi ci raggiungano in questo mondo, quello vero, in cui si cerca di comprendere e non di giudicare, tutto qui.

Già, tutto qui. – disse Cola, facendosi prendere finalmente per mano dalla ragazza e allontanandosi alla scoperta di un mondo nuovo, più grande, più vero, più bello.

 

 

Flavio Minelli
Roma, 2009
 



1 - Antonio e Santina erano entrambi portatori di una malattia genetica, un mutazione particolare del loro codice genetico, che aveva fatto sì che il loro ultimo figlio fosse fatto in questo modo. Un giorno questa condizione avrebbe preso il nome di “ittiosi”, dalla parola greca che significa “pesce” proprio perché chi ce l’ha può avere la pelle che somiglia un po’  a quella a scaglie di un pesce.
2 - In realtà, essendo siciliani non proprio colti usavano il dialetto e lo chiamavano “Cola ‘u Pisci”, ma noi parliamo italiano e quindi lo chiameremo così.
3 - Federico di Svevia fu un personaggio quasi mitologico nella storia di Sicilia, l’ultimo Re che diede al popolo siciliano la speranza di fare dell’isola una nazione ricca, colta e felice, guadagnandone l’amore e il rispetto.
4 - Grandi letterati hanno poi raccolto queste storie e le hanno scritte, Italo Calvino e Benedetto Croce tra tanti. Altri hanno voluto trovarci morali che riguardano il desiderio
dell’uomo di superare se stesso, di sacrificarsi per il bene comune anche se si è degli esclusi, quello di cercare i perché della vita, ma le cose non stanno così.
5 - Non si trattava in realtà di una fionda come quella che usano oggi i bambini, quella era una “frombola”, usata fin dall’antichità anche come arma da guerra e capace di atterrare un cervo a centinaia di metri. I soldati che la usavano si chiamavano “frombolieri” ed erano ai tempi dei romani dei temuti mercenari.
6 - Da quelle parole nacquero tante leggende che parlano di colonne da sostenere, radici di vulcani, lenticchie e chiazze di sangue che vennero a galla e che sono riportate ancora in molti libri ma non c’è nulla di vero, credetemi.


 

   

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