L'EREDITA' IMMATERIALE

Aspetti della cultura tradizionale siciliana
riconducibili alla presenza normanna in Sicilia

Estratto
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3 - Il patrimonio orale diffuso nell'area dello stretto e largamente partecipato dall'intera comunità messinese, almeno fino a quando il sisma del 1908 non determinò una mutazione antropologica nella cultura tradizionale locale, concerne fra le altre due figure, Colapesce e Giufà, che appaiono a vario titolo legate alla presenza dei Normanni in Sicilia.

Colapesce, giovane messinese secondo la maggioranza delle redazioni a stampa e versioni orali della leggenda a noi pervenute, è un essere che partecipa della duplice natura di uomo e di pesce a seguito di una maledizione scagliatagli dalla madre, esasperata per la sua eccessiva passione per il mare.
In forza di tale sua ambigua condizione di uomo acquatico, Colapesce svolge una funzione socialmente utile all’interno della sua comunità: disincaglia le reti, avverte i pescatori degli imminenti fortunali e addirittura reca messaggi da una sponda all’altra dello stretto.
La fama delle sue straordinarie capacità giunge fino al Re, che nella maggior parte delle versioni colte della leggenda è l'imperatore Federico II di Svevia, presente nella Città dello stretto nella primavera del 1221, ma che nelle più antiche versioni come quelle di Walter Mapes e di Gervasius de Tilbury è un re normanno come Guglielmo o Ruggero.
Il sovrano dunque, per curiosità e per soddisfare un capriccio che viene in quasi tutte le fonti presentato come naturale corollario dell’arrogante crudeltà dei potenti, obbliga il giovane Colapesce a dare prova delle sue capacità costringendolo ad intraprendere un vero e proprio viaggio agli inferi; egli dovrà infatti recuperare un oggetto prezioso (monile, anello, coppa d’oro o d’argento, corona ecc.) che il Re getta nel fondo del mare.
Il giovane avendo eseguito con successo l’ordine del sovrano, viene da costui costretto a ripetere la prova in condizioni sempre più difficili, fin quando fallisce e non riemerge più rimanendo per sempre sepolto sotto l’enorme coltre funebre del mare.
In alcune certamente successive versioni della leggenda, è il giovane nauta a decidere liberamente di non riemergere e sacrificare così la propria vita, avendo egli scorto una delle tre colonne che sorreggono la Sicilia in stato pericolante e quindi bisognevole di un perenne puntellamento.

Il tema leggendario, nella sua apparente semplicità, è ricco di antecedenti classici la cui presenza è da ricondurre ad una migrazione di temi analoghi dall’Ellade  e dal mondo egeo-minoico alla Magna Grecia e successivamente al meridione d’Italia (Napoli, Puglia, Calabria, Sicilia) ed alla più vasta area del Mediterraneo occidentale (Francia e Spagna), e trae al contempo molti suoi motivi da tradizioni nordiche la cui penetrazione in Sicilia può essere ascritta ai Normanni.
La figura di Nicola Pesce può essere inoltre ricondotta a Poisson Nicole, demiurgo trickster delle acque presente nella mitologia e nel folklore francesi, ma anche ad archetipi mitologici che risalgono fino al dio del mare Nettuno.

Quello che in realtà occorre evidenziare, e che rende la leggenda di Colapesce significativa sotto il profilo antropologico, è il tema della prova così come esso è stato recepito ed in parte riplasmato dai ceti subalterni meridionali, ed assunto quindi da questi come aspetto particolarmente rispondente alla propria visione del mondo. Colapesce è un uomo che viene dal popolo e che mantiene tale sua connotazione sociale anche in presenza di un sostanziale mutamento di stato per ciò che concerne le sue capacità ed abilità in ambito esistenziale. Come tale, egli deve pagare lo scotto della conquistata emancipazione dalla condizione di penuria e di limitata libertà che caratterizza i ceti popolari.

Ho accennato poc’anzi al ruolo fondamentale svolto dai Normanni per quanto concerne, sul piano culturale contestuale alla loro espansione politica, la migrazione di molte tematiche favolistiche, tra le quali quelle connesse alla tradizione epica carolingia ed arturiana. Secondo Anita Seppilli in tale trasmissione di elementi epici, che poi dal Sud si sarebbero espansi anche verso il Nord Italia, rientrerebbero anche “alcune leggende agiografiche intrise di miti e riplasmate su matrici antichissime”.

Di fatto, la vittoriosa penetrazione dei Normanni alla riconquista della Sicilia, che proprio da Messina prese l’abbrivio con l’entrata trionfale nella città dello stretto del Gran Conte Ruggero,  è costellata di prodigi, interventi salvifici di santi e figure numinose, fondazioni di luoghi sacri, ed è caratterizzata da una sostanziale riscrittura organizzativa del territorio siciliano, cui offrirono un contributo decisivo i Basiliani. L’area messinese in particolare venne così a costituirsi come luogo di incontro e di mescolamento di elementi culturali sia nordici che orientali (greci ed armeni in specie) i quali finirono col sovrapporsi non sempre espungendoli da sé, ai preesistenti elementi latini, bizantini ed arabi.

Si può senza tema di smentita affermare che tale grumo magmatico di miti e di credenze si sia mantenuto integro ed abbia fortemente connotato la cultura tradizionale messinese almeno fino alla dominazione spagnola, la quale veicolò nuovi e non meno interessanti modelli culturali.

Per certi versi il passaggio dalla dominazione araba a quella normanna portò con sé un indubbio mutamento di prospettive culturali, la cui traiettoria acculturativa può essere emblematicamente indicata nel cambiamento intervenuto nella novellistica popolare: dalla figura di Giufà, eroe orientale bizzarro e lunatico, a quella di Re Artù, dall’impronta marcatamente solare.

Nella cultura tradizionale siciliana le surreali e tragicomiche storie di Giufà costituiscono nel loro complesso una sorta di ironico contraltare alla drammatica tragicità dell’esistenza, proprio come le farse di Nofriu e di Peppinninu, spezzando la tensione delle assai serie vicende paladinesche, riescono ad allentare, suscitando il riso da parte degli spettatori, il groviglio di passioni che l’opra dei pupi rappresenta sulla scena. Il carattere liberatorio e addirittura terapeutico del riso è strettamente connesso all’originario significato sacro di tale fondamentale espressione umana.

Giufà possiede tutte le caratteristiche del demiurgo trickster, dell’essere mitico che è al contempo personaggio creativo e buffone,  sacro e misterioso, come tale oggetto di tabu, che con i propri fraintendimenti scardina e mette in crisi le ordinate corrispondenze tra parole e cose, e così facendo in qualche modo rifonda sempre di nuovo il mondo.

Il riso, nei contesti sopra richiamati, appare baluardo estremo contro la morte, segnale forte e pregnante della vitalità che attraversa la storia umana e che di essa demistifica i falsi idoli, le false verità, i saperi e le certezze tradizionalmente consolidati e supinamente accettati, nonché lo stesso carattere univoco e monolitico del linguaggio, laddove tale univocità e monolitismo si traducano in ottusa cristallizzazione, in rinuncia definitiva alla sperimentazione e alla ricerca, in passiva cecità di fronte alla straordinaria polisemia del reale.

Così, Giufà appare eroe levantino, arabo, siciliano: a fronte della inattaccabile serietà degli eroi nordici, dei modelli culturali importati dai Normanni, Giufà testimonia che nella sfera culturale nord-africana e islamica, della quale anche la Sicilia partecipa, l’assoluto si lascia scoprire solo a condizione di essere disposti a sperimentarne le molteplici aporie.

Come un maestro Zen, Giufà impartisce i propri insegnamenti compiendo atti ed elaborando stratagemmi linguistici che sono fonti di illuminazione per chiunque ad essi assista, squarciando alla stregua di un fulmine la caligine che avvolge il nocciolo dell’esistenza. Mentre Artù, eroe solare, è l’esponente di un universo serio, per nulla rabelaisiano, in cui la preminenza rimane per sempre accordata alla conoscenza, ancorché sapienziale, dell’unica grammatica possibile attraverso la quale conoscere e decrittare il reale, ossia quella del rito, dell’ordine e del potere, Giufà è il detentore di un sapere tutto lunare, basato sulla scaltrezza, sulla capacità di riscrivere la sintassi del mondo attingendo al potere rivoluzionario della letteralità.

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Sergio Todesco
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