La leggenda di Colapesce

La Leggenda scritta

 

Cominciamo la rassegna dei racconti stati finora pubblicati intorno a Cola Pesce; e prendiamo le mosse da un poeta provenzale della seconda metà del secolo XII, Raimon Jordan, il quale ci lasciava questa strofe intorno al celebre palombaro:

Tals estarai cum Nichola de Bar
Qui si visques Ione temps.. savis hom fora,
Qu' estet gran temps mest Io peisor en mar
E sabia qei morria ealque hora.
E ges per tant non volc venir ensai
E si o fetz, tost tornet morir lai
En la gran mar, don pois non poc issir,
Enans i pres la mort senes mentir


Trattasi, come si vede, di una semplice notizia, la quale però ha tutto il carattere di documento storico altro non essendovene anteriore, se pure non lo è un passo di Gualtiero Mapes. Nicola è barese, e vive lungamente coi pesci in mare, fuori del quale non sa fermarsi sapendo altrimenti di dover morire.
L'inglese Mapes, contemporaneo di Jordan, fu canonaco in Salisbury, arcidiacono in Oxford; venne in Italia e potè aver conoscenza della leggenda, già fin d'allora popolare. Tra gli anni 1188 e 1193 scrisse De nugis curialium.
Sia errore di pronunzia, sia sbaglio di trascrizione, egli chiama il nostro nuotatore Pipe e lo fa vivere sotto Guglielmo II (1166-1180), e ne parla per sentita dire e come di un prodigio veduto da molti di coloro che egli, Mapes, conobbe.

Nicola, senza prender fiato per un mese o per un intiero anno, dimorava in mare raccogliendo ferravecchi di carri o di cavalli, né da esso potendo, senza gravi sofferenze, allontanarsi; sì che quando il re incuriosito volle conoscerlo e se lo fece condurre innanzi, Cola, quasi pesce fuor d'acqua, si morì.

Qui la leggenda c'è, ma come di primo getto, indeterminata, povera di particolarità che rendano ben delineata la figura dell'audace giovane. La parte più attraente del racconto, quella, cioè, dell'oggetto o degli oggetti preziosi da lui andati a pescare in fondo al mare manca del tutto.
Esisteva essa ai tempi di Mapes? Fu da lui taciuta? Che esistesse, nessuno può affermare o negare, benché io propenderei per la esistenza della circostanza curiosa; ma che, conoscendosi, fosse stata dal narratore omessa, non è credibile, quando si consideri il piacere che si prova raccontando o sentendo avvenimenti maravigliosi. Il bello del racconto è appunto là nella circostanza mancante; e Mapes, novelliere, non vi avrebbe rinunziato.

Altra versione conosciuta è quella di Gervasio di Tilbury nel secolo XIII; ma anche questa manca di gualche circostanza, non ostante ci dia la patria del giovane, la Puglia, ed il luogo della scena, il Faro. Nicola Pipe passa in Nicola Papa o Pipa, secondo i mss latini 6488 e 6489 (sec. XIV) della Biblioteca nazionale di Parigi; Guglielmo è sostituito da Ruggiero (1127-1154), il quale obbliga il palombaro a scendere nelle profonde voragini tra Scilla e Cariddi per sapergli dire quel che vi scopra e discerna. Nicola, come espertissimo del mare, scopre un profondo abisso, monti e valli, selve e campi ed alberi ghiandiferi. Egli non tenta nessuna prova straordinaria, oltre quella che comunemente gli si attribuisce: di esplorare il fondo del mare, di preannunziare ai naviganti le prossime tempeste.
Circostanza, poi, degna di nota, perchè unica in tutte le versioni, l'uso dell'olio in' mare, "ut eius benefìcio fundum abyssi mari speculatius intueri posset atque mirare”; uso comune sempre tra' pescatori anche in Sicilia, specie nella pesca dei polipi.
Vuolsi intanto rilevare che le due versioni degli scrittori inglesi sono indipendenti l'una dall'altra: e si ha ragione di credere che quella di Gervasio fosse stata raccolta qui in Sicilia, quando l'autore, nipote di Enrico II re d'Inghilterra, stette a lungo ai servizi del re nell'Isola, dove raccolse tradizioni che ai dì nostri sono elementi leggendari rimasti lunga pezza tra noi, ed ora dimenticati. I suoi Olia Imperlalla, nei quali è pure la storia di Nicola Papa, furono scritte l’anno 1210 per l'imperatore Ottone IV di Germania.

La più completa redazione della leggenda in quel medesimo secolo ed una delle migliori nei secoli successivi è, come vedremo, di Fra Silimbene da Parma nella sua Chronica, pubblicati per la prima volta l'anno 1857.
Nicola è siciliano e come un pesce vive in mare e non può mai allontanarsene per una imprecazione che la madre, una volta da lui gravemente offesa, gli lanciò in un momento di collera, cioè: che egli stèsse sempre in mare e raramente apparisse sulla terra (vedremo più innanzi quanta importanza meriti questa particolarità). Egli muore sotto Federico II lo Svevo, che per un capriccio, per uno di quei capricci che la tradizione popolare siciliana con costante malevolenza attribuisce a questo principe, gl'impone di tuffarsi più volte nel Faro per sapergli dire la novità circa quei luoghi e di raccogliere la coppa d'oro ch’egli vi lancia.

Fra Salimbene, contemporaneo di Federico II, visse dal 1225 al 1290 e in quel torno ebbe raccontato il fatto dai suoi correligiosi in Messina e da suo fratello, che abitava in quella città.
"Le cose suddette udii cento e cento volte dai frati di Messina, che furono miei grandi amici. Io ebbi anche nell' Ordine dei Minori un mio fratello consanguineo, Giacomo de Cassio, parmense, che abitava nella città di Messina, e queste cose mi riferì”

Come uomo ingenuo, di buona fede e credulo a tal segno da affermare, p. e., di aver visto coi propri occhi la Madonna, S. Giuseppe ed il Bambino passeggiar per Parma, e parlargli in sogno, onde veniva testè qualificato per un bambino del sec. XIII, egli, secondo la sua maniera di sentire, non racconta se non cose vere.

Il noto viaggiatore bolognese Francesco Pipino, fiorito intorno al 1820, dopo di aver narrati nel suo Ghronicon alcuni fatti avvenuti verso il 1239, parla anche lui di Nicola, che chiama per la prima volta Pesce, assegnandogli per patria la Sicilia, e per re Federico II.
La collera della madre ha la sua spiegazione in una causa ragionevole: nell'assidua frequenza del fanciullo nel mare.
"Hic enim, dum puer esset, delectabatur esse in aquis assìduus; cujus mater ob hoc indignata, maledictionem imprecata est, ut scilicet semper esse delectator in aquis, et extra eas non posset vivere; quod siquidem contigit, nani semper, ex tunc. in aquis maris vixit ut piscis. Diu extra aquas esse non poterat”.

In mare egli s'accompagnava coi naviganti, e prediceva loro i flussi e reflussi. Il pesce più grande da lui visto era un'anguilla. Solo una volta l'Imperatore Svevo gli fé tentare la prova del vaso gettato nel Faro, e Nicola vi perdette la vita.

Il Pipino ricorda, - cosa sulla quale fin da ora chiamo l'attenzione del lettore, - che quand'era fanciullo, le mamme che voleano far paura ai bambini piagnolosi nominavano Nicola, come oggi si nominerebbe il bau od altro essere immaginario pauroso per i bambini.

La leggenda di Nicola dunque o, per lo meno, la figura di lui dovea essere popolare nell'Alta Italia.
Per la terza volta di seguito c' incontriamo nella imprecazione materna in Ricobaldo da Ferrara nel secolo XIV ; ma se le due narrazioni precedenti sono indipendenti l'una dall'altra, questa brevissima del ferrarese può provenire da una delle due, benché di entrambe taccia le circostanze tutte relative al premio promesso dal re ed alla morte.
Nicola Pesce vive verso il 1223, data che non vuolsi prendere in contraddizione di quella del Pipino, il quale sotto l'anno 1239 fa menzione di Nicola non già come persona che fiorisse in quel tempo, ma per la impresa ordinatagli da Federico.

Col domenicano Giovanni Junior, autore della Scala Celi la leggenda di Cola Pesce piglia carattere morale e serve ad applicazioni religiose e devote; e solo con lui, per la prima metà del trecento, vediamo fatto cenno d’un sacchetto d'oro che il palombaro dovette riportare nuotando.

Al Gódeke sembra provato le fonti di questo scrittore potersi riportare ben poco al di là della metà del secolo XIII; ma io non so affermarlo, non avendo sott'occhio l'opera del buon frate.
Carattere anche morale ha il ricordo di Cola nel Dittamondo di Fazio degli Uberti, dove il punto, diciamo culminarne, anzi il perno di tutta la leggenda, è quello della imprecazione della madre, il quale dovrebbe esser di lezione alle madri tutte. Il poeta così ammonisce:

Quel eh' io dico nota e non sii soro:
Per dar esempio a molte lingue adre,
Che dan crude bestemmie ai figli loro.
Nicola bestemmiato dalla madre,
Ch'ei non potesse mai dal mare uscire,
Convenne abbandonar parenti e padre.
E poi volendo al precetto obbedire
Si Federico, nel profondo mare
Senza tornar mai su, si mise a gire


Altro breve ricordo, indipendente dagli altri, si ha in  Raffaelle da Volterra, per cui Niccolò, soprannominato  Colapesce, pugliese, nel sec. XV è un essere sorprendente, che ai marinai apparisce  come un mostro marino, predicendo le prossime tempeste.  E nient'altro che questo.
L'autorità del Volterrano fu citata da Ludovico Vives, il quale riporta il fatto a due secoli prima, che è quanto dire verso il 1330, sotto Federico d'Aragona.
Gioviano Pontano, uno dei più illustri umanisti ed oratori del suo tempo (1426-1503), maestro e segretario di re Alfonso II, ci diede anche lui la leggenda, e nelle due volte che lo fece, fornì particolarità nuove.
Cola Pesce
messinese, non ostante i rimproveri materni, cresce e vive in mare, e divien livido, squamoso, orrendo, un non so che di simile al pesce senza però esserlo (De Immanitate).
Questa figura è nuova, e ci richiama al tanquam monstrum marinum del Volterrano. Le belve stesse del mare lo temono, e tacciono i cani ed i lupi ululanti nel mare di Scilla. Scilla medesima, ferita da lui, fugge in un antro, dove Nicola inseguendola trova avanzi di corpi umani e di navi, e rovine d'ogni genere. Dopo tre dì torna trionfante in Messina, ove il popolo lo attende ed acclama. 
Federico
getta in acqua una coppa lavorata, che esso deve riportargli; e poiché Nicola tentenna, lo vuol fare incatenare; onde il malcapitato è costretto ad ubbidirgli, e trova sepoltura nei gorghi (Urania).
Questo racconto in 114 versi ha certamente del poetico; ma la poesia o, meglio, la parte fantastica, è di fatto assai minore di quello che si creda. Quando si scorra la leggenda di Messina: Lu Gialanti Pisci  si vedrà subito che lo elemento subiettivo della redazione pontaniana devesi alla tradizione popolare.

Man mano che ci avanziamo coi secoli, la leggenda si amplia, si arricchisce, acquista altri colori. La novella non è bella se non c'è la giunterella, dice il proverbio: ed ecco Alessandro D'Alessandro, giureconsulto napoletano del cinquecento, prender le mosse dal Pontano e ridarci il racconto minuto quale non s'era avuto fino a lui.
Nicola è un certo Colan pesce, catanese, che nuota 500 stadi, monta sulle navi in tempesta, mangia e beve coi marinai, li conosce e chiama per nome, li avverte sul da fare nei grandi frangenti. Egli è un vero corriere, recantesi da Messina a Catania, a Gaeta, in Terra d'Otranto, in Lucania ed altrove, eseguendo commissioni. Tutto questo è tradizione: traditur...; patrum nosèrorum memoria. Finalmente un bel giorno, in una solenne festa solita annualmente farsi con l'intervento del re nel porto di Messina, ut ajunt, in una gara di nuotatori, egli tuffatosi per andare a raccattar la tazza d'oro finì, forse (creditur) per esser piombato in una delle caverne onde è pieno quel seno.
È chiaro che se qualche circostanza il D'Alessandro ha cavato dal racconto del Pontano che egli cita, qualche altra dee averne presa dalla tradizione, la quale partecipa molto alle versioni di Fra Salimbene, come io credo, del Pontano e del D'Alessandro stesso.

Uscendo d'Italia, la leggenda riappare nel medesimo secolo in Ispagna per opera di Pietro Mexia. Da fanciullo questi sentì dai vecchi raccontare di un pesce Cola, uomo, con molte cose favolose, le quali egli, fatto grandicello, potè poi identificare con quelle che trovò raccontate dal Pontano e dal D'Alessandro, e che pur "favolosamente raccontano del pesce Cola le vecchie “.
Ma in tanta identità una contraddizione è evidente. Egli dice il fatto avvenuto sotto Alfonso re di Napoli ed al tempo dei due scrittori: mentre il Pontano parla di Federico II, e il D'Alessandro scrive proprio cosi: Si quidem, patrum nostrorum memoria, Catanae homo fuisse traditur, cui nomen Colan inditum ferunt, cognomento piscis.
È chiaro dunque che egli raccolse, o meglio ricordò una tradizione sivigliana, in tutto e per tutto simile a quella dei due scrittori napoletani con l'adattamento al tempo suo.
Notevole la distinzione tra il nome Colan quale si legge nel D'Alessandro, e Cola , di cui parlano le vecchierelle spagnuole.
Ma poi, è egli vero che Mexia lesse la narrazione del Pontano? Mi sia lecito dubitarne. Io ritengo invece che egli non ebbe sott'occhio gli eleganti esametri del celebre umanista, e che ne parlò per sentita dire o forse, a volere esser più esatti, per la citazione che ne trovò nel racconto del D' Alessandro: quod a Jovano Pontano relatum audivimus.

Fin qui noi non abbiamo riscontrato in Sicilia uno che facesse menzione della leggenda. Eppure è incredibile che qualcuno non se ne occupasse, se non altro come d'una curiosità. Solo nella seconda metà del cinquecento, in questo senso ne fanno menzione un frate domenicano di Sciacca, T. Fazello, un signore di Castiglione in Sicilia, Giulio Filoteo degli Omodei ed un ecclesiastico di Messina, Francesco Maurolico.
Lasciamo la narrazione di quest'ultimo, perchè brevissima, e basata tutta su Ricobaldo e Pontano, e vediamo il racconto di quel Fazello, che per prepararsi alla conoscenza delle cose di Sicilia e dettare le sue decadi De rebus siculis percorse cinque volte l'Isola vedendo, osservando, indagando come nessuno avea mai fatto prima pochi avran fatto dopo di lui. Certo, da libri e da mss. devo egli aver preso qualche cosa: p. e. la patria di Cola, "Catania”, ed “il giorno solenne della discesa in mare”... che può avergli fornito il D'Alessandro; ed i segreti di natura, che dovette prendere dal Ricobaldo; ma certo altresì che dalla tradizione tolse le circostanze non notate fino a lui, le quali io ridurrei alla triplice discesa in mare ed alla conformazione fungosa dei polmoni, che però poteva anche essere un giudizio particolare del Fazello per ispiegare la lunga rimanenza del nuotatore in mezzo alle acque. Egli stesso, l'A., mentre dice: Fuit Messanae patrum nostrorum memoria Cola pisci, sed Catanae ortus; non tralascia di avvertire che: Ita ducta per manus fama Messanenses praedicant, et plures primi nominis authores de illo scribunt, ed anzi, parlando appunto dei segreti sottomarini, avverte, nessun messinese averglieli mai saputo precisare.
La narrazione del Fazello nel sec. XVI, fu ripetuta quasi alla lettera dall' annalista Cajo Calogero Gallo, che non lasciò di citarlo. Il punto nel quale se ne discostò è nel luogo proprio della scena, che pel Fazello è, in generale, “nel mare di Messina” e pel Gallo nel porto.
D'importanza capitale è per noi la versione dell'Omodei.
Per chi non abbia sott'occhio la Biblioteca storica e letteraria di Sicilia del Di Marzo, nella quale la Descrizione della Sicilia nel secolo XVI col Sommario degli unomini illustri della Sicilia (vol. 11° di essa Descrizione) venne data in luce, giova rilevare l'affermazione dell' Omodei, cioè, di aver egli finito l'opera sua il 1° Maggio 1557. Questa data è anteriore di tre anni alla prima edizione del De rebus siculis del Fazello, la quale, come è risaputo, uscì nel 1560, mentre la Descrizione dell'Omodei restò inedita fino agli anni 1876 e 77.
Chi prende in mano le due opere resta sorpreso della somiglianza della trattazione, spesso della medesimezza di intere pagine. Ad altri le ragioni critiche del fatto: le quali il Di Marzo vide nella possibilità che l’Omodei  avesse “avuto agio di avere fra mano ancora inedita l'opera di lui (Fazello), ovver, che è più probabile, avendo prima fornito la sua corografia, l'abbia indi in più luoghi rifatta sull'andare di quello al pubblicarsi della sua insigne opera lasciando stare (forse non senza qualche dose di malizia) l'anteriore data alla fine”.
A me importa far notare che questa volta, come per eccezione, l’Omodei non ha nulla di comune col Fazello, e racconta la leggenda di Cola come fu raccontata a lui dal suo maestro, circa l'anno 1525.
Cola fiorì verso il 1460 sotto Ferdinando di Napoli, e non prima, come altri vogliono. Persone che lo conobbero e parlarono con lui raccontarono a quel maestro come il gran palombaro avesse piena conoscenza del porto di Messina e di parte del Faro; come nelle feste i Messinesi andassero in barca a vederlo nuotare, come il re,  “secondo predica la fama” lo trovasse nudo nell'arena, e per due volte di seguito gli facesse tentare la prova dell'anello, che alla terza riuscì sfortunata, probabilmente per quell'immenso polipo che già prima gli avea minacciata la vita.

La notizia delle persone che conobbero Cola fu certo una vanteria del maestro, nella quale lo scolare trovò modo di accreditare la narrazione: vanteria non rara a riscontrare facendosi ricerca di leggende e di canti. perchè anche il popolo ha le sue vanità, ed anche le persone dotte dicono le loro brave bugie.
Ricordo popolani che con me, raccoglitore di tradizioni dalla loro bocca, si lodarono di aver conosciuto Pietro Fullone, storicamente vissuto nel sec. XVII, tradizionalmente venuto a tenzoni poetiche non si sa quando.
In Carini, nel Settembre del 1869, un contadino mi si dichiarò autore del trisecolare frammento Viju viniri 'nà cavallarla ecc., e mesi fa, al Borgo Nuovo in Palermo, un cantastorie, che da alcuni anni va cantando con accompagnamento di chitarra la melodia della Principessa di Carini, non ebbe ritegno di rispondermi - interrogato di quella melodia - essere essa musica sua: quella musica che io avevo pubblicata nel 1871 sulla cantilena dei vecchi Borghetani!
Il Sebastiani nella Rondinella del 1866 dice che il canto popolare umbro che principia:
Passo e ripasso e la finestra è chiusa,
gli venne affermato “frammento d'un canto d'un bardo campestre per la morte d' un'amante d'un giovane reduce dalla Russia con Napoleone I”
Egli stesso vi prestò fede; ed aggiunse che la vecchierella che glielo raccontò piangeva, perchè la povera morta era stata figlioccia d'una sua comare.
Pietro Pellizzari raccogliendo nel 1881 il medesimo canto in Terra d'Otranto l'ebbe dato come "canzune de lu surdatu” e per argomento vi scrisse, sotto la dettatura del canterino o della canterina:
"È nu caruso tornatu de surdatu, e' avia lassatu la nnamurata, e Ila trova morta”Eppure il canto è una variante d'un frammento della citata Principessa di Carini !...


Non ostante questo, la leggenda dell'Omodei mi pare interessante come tradizione rappresentando uno dei tipi principali delle redazioni in esame.
Tolta questa, le altre versioni del secolo XVI non hanno attrattiva di sorta per noi. Il milanese Gaspero Bugati dice solo che Cola fu sotto Gregorio IX.

Di T. Porcacchi da Castiglione aretino non occorre neppure far menzione. Tommaso Garzoni da Bagnocavallo, che nelle sue opere accumulò le più strane cose sui mestieri e le professioni del mondo, tenne dietro, senza neppure nominarlo, al Mexia, che è quanto dire al D'Alessandro, ripetendo le parole della prova che re Alfonso fece di Colano e d'altro nuotatore: unica novità la mutazione di Colano in Calano ed il computo dei 500 stadi.

Suppergiù il medesimo è di Simone Majolo astigiano; se non che, per la prima volta dopo tre secoli, vediamo con lui e, nel secolo seguente, col tedesco G. Schott, dimorato nel ginnasio di Palermo, segnata la figura del nostro nuotatore; perchè, seguendo il Volterrano egli ammette un Colapesce vissuto sotto Gregorio IX, e seguendo D'Alessandro, un Pesce Colano vissuto sotto re Alfonso.

Come abbiam visto il nome di Colan apparve la prima volta in Pontano, per la seconda in D'Alessandro che lo tenne presente, e poi in Mexia che seguì l'uno e l'altro.
Il nessun valore della versione del messinese Maurolico ha pur quella dell'altro messinese Rocco Gambacorta, che, ripetendo il già detto dal Fazello, fa nascere nella sua patria Cola, e lo fa morire al secondo esperimento.

Del secolo seguente è la versione di un terzo messinese, Giuseppe Buonfiglio e Costanzo, che col Maurolico cita disordinatamente Pontano e Ricobaldo e, mutando solo la data del 1233 in 1228, che deve aver presa direttamente dal Ricobaldo, ripete le medesime circostanze di lui, fino a tradurre l'in Charybdis voragine periti, in credesi essere stato assorbito dalle voragini di Cariddi.

E son pure del sec. XVII le versioni del perugino D. Secondo Lancellotti, il quale imitando il fare del Garzoni e scrivendo con altre vedute una selva erudita, copiò da lui, che a volta sua avea copiato dal Mexia; dello spagnuolo B. Feyjoo, ripetitore delle notizie del D'Alessandro con questo però che Cola per ordine di Federico re di Napoli e di Sicilia scende la prima volta per la solita coppa e la seconda per la borsa, che sfortunatamente non riporta perchè annegato; di Andrea Cirino, che scrive:
"De quodam catinense, qui Messanae commorabatur, ac vulgus Cola Pesce nuncupabat, fertur ad instar piscium abruptis maxillis aquas tranare, tandemque inter Charibdis vortices fato cessasse”
 e dello Schott già citato.

Il racconto del P. Kircher nel sec. XVII attinge alla importanza di quelle del Salimbene, del D'Alessandro e dell'Omodei senza per altro seguire nessun libro conosciuto, per quanto dai libri del tempo ritragga la rettorica e la pompa oratoria del celebre gesuita di Geysen.
Da quel racconto, il più lungo che si conosca, risulta che Niccolò volgarmente detto Pescecola, (è il primo apparire di questo nome popolare) fin da bambino si abituò a stare in acqua raccogliendo ostriche e coralli, che poi vendeva per mangiare, e pesci, che mangiava crudi dimorando sott'acqua a guisa di pesce per quattro o cinque giorni di seguito. Aveva figura di anfibio, e, particolarità nuova, mani e piedi come le oche, onde agevole gli era l'andar in Calabria ed in Lipari disimpegnando l'ufficio di corriere con una borsa, entro la quale serbava le carte che gli si affidavano.
Re Federico volle una volta vederlo; dopo lunga ricerca per mare e per terra, lo si rinvenne e condusse alla reale presenza. Federico gli ordina che si sprofondi nelle voragini di Cariddi; Pescecola nicchia, ma alla vista d'una tazza d'oro lanciatavi dal re, si risolve; riviene a galla dopo tre ore e racconta di quattro cose maravigliose e terribili viste in quella voragine, e fornisce esaurienti spiegazioni di quello che il Re gli domanda.
Una seconda volta Federico gli ordina di scendere; nuovi dubbi e crescente perplessità; nuova insidia lusinghiera del re: una borsa di monete d oro ed altra tazza di più grande valore, dietro la quale egli si lancia per non tornare mai più a galla.

Pescecola è avido di danaro; Federico II curioso, di una curiosità crudele, che mette a pericolo, anzi toglie la vita di quel povero uomo.

Così è sempre nelle tradizioni popolari questo capriccioso e grande Imperatore: il quale, secondo il Salimbene, fece togliere il pollice a un suo segretario che avea scritto Frederìcus invece di Fridericus, com'egli voleva; fece allevare alcuni bambini proibendo alle balie di parlare per vedere che lingua avrebbero essi un giorno parlata spontaneamente; e, secondo il nostro popolino, in Messina fece morire annegato Colapesce, in Palermo ed altrove soffocare per propaginazione altre persone, e nel regio palazzo della antica Capitale di Sicilia morire tre donne illustri, mogli di baroni ribelli: donde il motto proverbiale giunto fino a noi:
“Li tri donni e chi mali cci abbinni!”

Il Kircher conchiude la sua narrazione così:
"Hanc historiam prout in Actis Regiis descripta fuit, à Secretano Archivi mitri communicatam apponere hoc loco visura fuit, ut marium vorticosi tractus luculentius paterent.

Ma di quali Atti parla e di qual Segretario? Senza fermarmi su questa affermazione vaga e neppur discutibile, io credo che il dotto fisico tedesco riportasse una tradizione ras. fornitagli da persone di Messina, le quali affin di renderla autorevole e preziosa, gli avranno probabilmente detto provenire da  non so quali archivi, ed essere stata fornita da non so da qual  segretario. Ma egli stesso accusa la tradizionalità del racconto quando, ricordato Nicolo, confessa:
Quem a natandi peritici vulgo Pescecola nominabant; quando nota: dicitur Liparitanas Insulas natata  non semel penetrasse....; narrant praeterea.... dictum Nicolaum temperamentumque mutasse, ut amphibio quam homini similior esset.
E la tradizionalità è corroborata dalla bizzarra natura di Federico, conforme a quanto ho accennato delle leggende popolari su di lui.
Nè la pompa oratoria delle risposte di Cola toglie nulla alla provenienza, perchè siamo in pieno seicento, e le cose più semplici piglian colore spiccatamente esagerato.

La versione di Kircher venne ripetuta, come vedremo più innanzi, dal Giannettasio e, secondo il Dott.UJlrich, da Erasmo Francisci nell’Ost-und Westindischer, wìe aneli Sinesischer Lust-und Statsgarten,  da Eberhard Werner Happel (1648-1690) nel suo Grösten Denkwürdigkeiten der Welt, oder Relationes curiosae, dall'autore dell'opera: Der Hertzogthümer Schelesswig-Holstein, ecc. Geschichte, da F. W. Otto nel suo Abriss einer Naturgeschichte dès Meeres, da Oronzio de' Bernardi ne L'uomo galleggiante.
La ripeterono pure i compilatori del Nuovo Dizionario storico, ovvero Istoria in compendio di tutti gli uomini che si son renduti celebri per talento, virtù ecc. composte da una Società di letterati sulla 7° edizione francese del 1789 tradotto per la prima volta in italiano ecc.
Nell'ottocento poi lo seguirono in Napoli quel Guglielmo Villarosa che tradusse dal francese l'opera: La Mediterranee; in Sicilia Vincenzo Linares e Felice Bisazza, e in Torino i compilatori della Nuova Enciclopedia popolare italiana e non so quanti altri.
E poiché il Kircher non assegnò una patria all'esperto palombaro, tutti si credeva liberi di attribuire a costui quella che vogliono; onde il Linares gli dà Catania ed il Bisazza Messina, ntrambi poi facendolo annegare, l'uno prosaicamente nel Faro, l'altro poeticamente tra Scilla e Cariddi tanto per non essere in contraddizione con ciò che ha cantato nella sua drammatica ballata sopra lo sfortunato nuotatore. L'uno, trovando vago il Federico del Kircher lo precisa in "Federico re di Napoli”: l'altro, seguendo un'opinione oramai inveterata nei Siciliani che sanno leggere, "Federico II”.
Quello, il Linares, ripete la prima prova della coppa d'oro, e la seconda, infelice, della coppa e della borsa; questo, il Bisazza, quella della semplice coppa, solo una volta felicemente superata. Del Kircher è anche la borsa da corriere e la gita nelle isole vicine menzionata dal Linares, il quale però ebbe a prendere qualcos'altro da scrittori anteriori; del Kircher le dita congiunte da cartilagini a guisa di oche, la pesca di conchiglie e di coralli onde trae la vita, ed altri particolari di second'ordine. E, non ostante tanta fedele imitazione, non si dura fatica a vedere che nessuno dei due Siciliani vide mai il Mundus subterraneus; e che le notizie che ne recano entrambi devono averle prese di terza o quarta mano.

Direttamente dal Kircher discende il Giannettasio, che alla seconda prova fa perire il suo Piscis, più poetico del Kircheriano Pescecola. e lo fa perire proprio a Cariddi, vittima non sai se più dei mostri spaventevoli che delle scene orribili del luogo, per antica tradizione infame.
Pesce però non fa da corriere, che sarebbe troppo prosaico nel poema; ne è avido d'oro.
Un gruppo di tre viaggiatori: uno inglese, uno francese ed uno italiano con unanimità di giudizi ed uniformità di narrazione ripetono la solita storia di Cola messinese, la cui rinomanza chiama in quella città re Federico di Sicilia, e le coppe preziose per tre volte consecutive gettate da lui nei vortici di Cariddi, e la morto ivi trovata dal palombaro, il cui cadavere si raccoglie poi, a trenta miglia di distanza, nel mar di Taormina.

I tre viaggiatori, seguiti nel 1821 dal francese de Sayve, sono Patrick Brydone, l'ab. Richard de Saint-Non e Lazzaro Spallanzani. Attenendosi ad altra fonte Brydone chiama il nuotatore Colar.

Ma vediamo un'altra versione siciliana del sec. XVIII (quella del Gallo l'abbiamo già veduta) lasciataci ms dal Villabianca. È essa un amalgama scomposto di fatti che rivelano la confusione dell'erudito palermitano su questo punto.
Pesce Cola sarebbe nato in Catania nella metà del 1400. Ma questa data donde risulta? Solcava in mare 20 o 30 miglia, testimonio Messia, Selva di.... (e la citazione resta in asso).
Ma il Mexia non parla nè dell'anno 1400, nè delle 30 miglia, ma invece di Alfonso di Napoli e di 16-17 leghe di Spagna pari a 500 stadi.
Appoggiandosi al Kircher, che egli scrive Kirckener, gli fa dire che la prima volta che si slanciò in mare, Cola ne uscì con la coppa; la seconda volta, gettatosi per prendere una bocce d'oro o altra tazza, morì; mentre l'autore del Mundus subterraneus parla di marsupio pleno nummis aureis e non di bocce.
Tanto il Mexia quanto il Kircher dunque sono citati, come si suol dire, a credito. “Si pretende - soggiunge il Villabianca - dagli scrittori essere stati due li Cola Pesce: uno chiamato Cola e l'altro Colano”,.. Sapevamecelo, diceva colui; e questi scrittori sono il Pontano e il D'Alessandro, seguiti dal Garzoni, dal Lancellotti, dallo Schott; ma non sapevamo che vi fosse stato "un altro Colapesce a' tempi del Re Federico il Semplice”, che poi, per una strana mistificazione originata da un passo che il Villabianca copia dalla Sicilia ricercata del Mongitore, non è un III, quanti egli ne ha enumerati, ma un II (mentre poteva avvertire uno essere Federico II d'Aragona un altro Federico III detto il Semplice).

Tanto disordine di fatti e tanta moltiplicazione e sottrazione di Colapesci sarà inesplicabile per chi legga il passo che riporterò del Vilìabianca; per me però il disordine è spiegabile. Il buon Marchese copiava le notizie mano mano che gli capitavano, poco curandosi se fossero contradittorie od incoerenti. Queste qui, infatti, sono nel ms. in inchiostri diversi, e spesso in carattere un po' differente, che rivela e la fretta della trascrizione e la poca cura di date e di circostanze. Con questo chiarimento il racconto del Vilìabianca va giudicato per quel che vale, pur tenendosi conto della imprecazione della madre di Cola Pesce, che io credo presa dalla tradizione piuttosto che dal Pipino e dal Ricobaldo, non visti mai per questo argomento dal nostro.

Delle versioni del decimonono secolo non accade occuparsi dopo quanto ho detto a proposito di quella del Kircher. Un esame accurato, ripetiamolo, induce a ritenere che tanto il Linares quanto il Bisazza abbiamo riportato  le notizie  del fisico tedesco e del pari, che nella decriszione dello storico Giuseppe La Farina siano da riconoscere le linee principali di quella del D'Alessandro.

Nessuno dei Siciliani, se ne togli lo Omodei ed un po' anche il Fazello, attinse a fonti popolari; eppure i siciliani avevano innanzi a loro il gran libro della tradizione e potevano a tutto loro agio consultarlo. Inesplicabile poi che una tradizione come questa, tutta messinese, non abbia avuto in quella città un amoroso raccoglitore, e che anzi tra tutte le narrazioni storiche della Sicilia, quello degli scrittori di Messina (il Maurolico, il Gambacorta, il Buonfiglio, il Gallo, il La Farina, per la prosa il Bisazza, e financo l’anonimo del giornale L’Innominato) sono le meno calde di entusiasmo, prive di originalità, scarse di novità, anche di minime circostanze particolari. Quanto costoro dissero, tolsero agli scrittori d'Italia e d'oltremonti, e non ai migliori, ai più genuini, a quelli cioè che in Sicilia, specialmente in Messina, vennero a raccogliere o poterono udire dalla tradizione orale la leggenda: forse Mapes, con fondate ragioni Gervasio di
Tilbury e Kircher, ma certamente Fra Salimbene.

Riassumendo i nomi, i motivi e le circostanze principali delle versioni letterarie, noi abbiamo una sola volta il nome di Pipe, nella più antica redazione della leggenda (Mapes); una sola volta quello di Papa o Pipa (G. di Tilbury), l'una e l'altra errori evidenti non seguiti da nessuno mai più; per una volta Nicola da Bari (Jordan), per due volte Nicola (Salimbene, Fazio degli Uberti) o Cola (Maurolico); Nicolò Pesce o Cola Pesce lo dicono gli autori Pipino, Ricobaldo, Pontano, Fazello, Omodei, Bugati, Porcacchi, Majolo, Gambacorta, Buonfiglio, Cirino, Gallo, La Farina, Bisazza: ed è questo il nome più comunemente adottato dagli scrittori; Calapesce un solo (Raff. da Volterra), senza dubbio per errore di trascrizione o di lettura; Pescecola è detto dal Kircher, dal Villabianca, dal Linares; Pesce dal Giannettasio, Colano dal D'Alessandro, dal Mexia; dal Majolo, dal Garzoni, dal Cardano, dal Lancellotti, dallo Schott; dei quali, due: Majolo e Schott, ammettono due nuotatori per uno, battezzati per Colapesce il primo e per Colano (Schott) o Pesce Colano il secondo (Majolo).

Non isfuggirà certamente che nessun messinese chiami altrimenti che Cola o Colapesce questo eroe dell'acqua, e che i Siciliani nati in Palermo, come il Villabianca o vissuti o dimorati in Palermo come il Linares, ed i forestieri che vi furono anche per poco come il P. Kircher, lo chiamino Pescecola.

Il quale è pugliese per Tilbury. pel Volterrano, pel Majolo. per lo Schott; siciliano pel Salimbene, pel Pipino, pel Ricobaldo, pel Bugati, pel Lancellotti: tutti e cinque non siciliani; catanese pel D'Alessandro, pel Mexia. pel Fazello, pel Maurolico, pel Cardano, pel Buonfiglio, pel Gallo, che s'appoggiarono al Fazello stesso, pel Porcacchi, pel Garzoni, pel Cirino, pel Villabianca, pel Linares; messinese pel Pontano, che primo affermò questa patria, pel Gambacorta, pel Bisazza; messinese o catanese per l'Omodei.
La sua sorprendente abilità al nuoto, la sua resistenza al mare anche in burrasca fan sì che Cola possa a lungo stare sott' acqua senza riprender fiato.
Il tempo varia secondo gli autori: tre, quattr’ore pel Cardano; tre giorni pel Pontano, per l'Omodei, pel Buonfìglio; quattro o cinque pel Kircher; più giorni pel Volterrano e pel Maurolico; un mese e financo un anno per Mapes; notte e giorno pel Gambacorta.
Durante tutto questo tempo egli avea agio di osservare, secondo Gervasio, un abisso nel Faro e monti, valli, selve, campi e alberi fruttiferi; secondo Pipino, un mare profondissimo ed il più grosso dei pesci l'anguilla; secondo Salimbene, navi sconquassate; secondo Kircher, un fiume impetuoso ed il flusso e reflusso delle acque nell' interno del mare, e scogli, ed immensi polipi, qualcuno dei quali più grande d'un uomo.
La maggioranza degli storici lo fa operare alla presenza di Federico lo Svevo: sono tra questi Fra Salimbene, Pipino, degli Uberti, Pontano, Fazello, Kircher od i messinesi tutti: Gambacorta, Maurolico, Gallo - che però nol precisa -, Buonfìglio, La Farina, Bisazza.
Federico lo Svevo si tramuta in Federico di Napoli o d'Aragona con Ludovico Vives, con Benito Feyjoo, col Linares e, sia detto con anticipazione, con tutti i letterati, romanzieri e drammatici napoletani che tolsero ad illustrare il nostro personaggio.
Ma l'inglese Mapes sullo scorcio del dugento lo fa agire sotto Guglielmo di Sicilia; Gervasio, nel trecento, sotto Ruggiero re.
Dopo questi due cronisti nessuno pensò più a far vivere il nostro palombaro sotto re normanni: bensì dal cinquecento all' ottocento, principiando dal castigliano Mexia, seguito dal Garzoni, dal Lancellotti, dallo Schott, e finendo al Villabianca, vediamo lo Svevo sostituito da Alfonso di Castiglia, che, sotto la penna, o meglio nella tradizione raccolta dall'Omodei, diventa nientemeno Ferdinando di Napoli. Né la cosa, per esorbitante che sia, deve far maraviglia, perchè siamo di fronte ad una tradizione, e nella paternità delle tradizioni e nel tempo al quale esse si riportano se ne leggono e sentono di tali che c'è da rimanere strabiliati.

Basta dire che la storiella della Discesa dei Giudici in Palermo e lo scoiamento di questi per ordine di Carlo V° si legge in Erodoto siccome avvenuta sotto Cambise; che la pretesa leggenda dell'uso delle monete di cuoio sotto Guglielmo il Malo si trova in Aristotile, attribuita a Gerone di Siracusa, ed il famoso aneddoto di Federico il Grande, e dicesi pure di Napoleone 1°, visitato dal suo primo ministro e trovato carponi a quattro piedi, portante a cavalluccio il suo bambino, (sicché, mortificato, il ministro si sarebbe ritratto), fu raccontato anche in persona di Filippo il Macedone e del suo figlioletto Alessandro.

Gli esempi simili a questi sono infiniti, e tutti provano un fatto di psicologia popolare ed etnica, cioè che noi vecchi fanciulli siam portati da natura a localizzare per la patria, a determinare pel tempo le cose che raccontiamo, creando anche l'ambiente nel quale esse possono aver avuto luogo.
Nei tempi normanni i cronisti inglesi parlavano di re normanni; nei tempi svevi, Salimbene parlava di Federico degli Hohenstaufen, e tutti lo seguirono; sotto la dominazione spagnuola in Sicilia, si prese il nome di un re casigliano, e se dal seicento in qua non si presero ad imprestito altri principi, ciò dipese dalla celebrità letteraria ed anche popolare di Federico lo Svevo, la cui leggenda tutte assorbì, accentuò e tramandò le leggende di altri re prima e dopo di lui.

In ragione del principe regnante è la data dell'avvenimento: verso la metà del XII secolo, per Gervasio; nel quarto ventennio di esso, per Mapes; nel 1223 per Ricobaldo e Buonfiglio; nel 1233, per Maurolico; nel 1239 per Pipino; ed in quel torno, cioè sotto Gregorio IX per Bugati e Schott; nel sec. XIII in generale, per Bisazza; verso il 1330, per Vives; nel sec. XV, per Raff. da Volterra; nel 1400, per Ornodei.  E come se tutto questo fosse poco, ecco il milanese Girolamo Cardano riportarlo al tempo suo.  Ora il Cardano (morto nel 1576) fiorì verso il 1544; sicché Cola Pesce sarebbe morto intorno al quarto decennio del cinquecento.

Gli sdoppiatori poi dell'avvenimento e del palombaro riportano ilsecondo Cola o il Colano ai tempi di Alfonso (e chi sa! forse all'anno 1432, in cui il re si recò in Messina): e questi sono - dopo Gioviano Pontano - il D'Alessandro, il Majolo, il Garzoni, il Lancellotti, lo Schott e Francesco Flaccomio.

Federico o altri per lui lancia in mare una coppa d'oro (Salimbene, D'Alessandro, Mexia, Fazello, Garzoni, Kircher, Feyjoo, Gallo, Villabianca, Linares, La Farina, Bisazza), o d'argento (Giannettasio), o una semplice coppa (Pontano, Maurolico), o - che è forse lo stesso - un vaso d'oro (Buonfiglio) o d'argento (Pipino), o una borsa con oro (Uberti, Junior, Kircher, che gli fa gettare altri premi), o palle d'oro (Villabianca), o un anello d'oro (Ornodei); che ci richiama alla romanza dell'anello caduto in mare. Di premi vaghi fanno menzione solo il Majolo e lo Schott.

Colapesce muore alla prima prova pel Pipino, pel Villabianca; alla seconda pel Salimbene, pel Gambacorta, pel Buonfiglio, pel Kircher, pel Feyjoo, pel Giannettasio, pel Bisazza; alla terza per il Fazello, l'Omodei, il Gallo, il Brydone, il Saint-Non, lo Spallanzani, il La Farina; e muore nel Faro per gli scrittori dal dugento al quattrocento ; nel porto per gli altri, in generale, dal cinquecento in poi ; ma il Maurolico, il Kircher, il Giannettasio ed il Cirino lo fan perire nella voragine di Cariddi; il Bisazza tra Scilla e Cariddi; il Gallo, con particolarità topografica erudita, sotto l’antico regio palazzo, che sorgeva sul molo e dove fino a ieri cominciava, se mal non ricordo, il piano di Terranova, dietro i magazzini dell' attuale dogana.
Il suo cadavere, scomparso pei più, per un gruppo di testimoni provenienti da una medesima fonte, fu trovato nel mar di Taormina.

Ed ora che tutti: storici, moralisti e scienziati una voce dicentes  l’han fatto morire, passiamo senz' altro alla leggenda popolare, paghi di aver potuto accertare:
1° che la leggenda di Cola Pesce è anteriore a Federico lo Svevo;
2° che parecchi scrittori tolsero il racconto dal popolo;
3° che la maggior parte di essi si copiarono e ricopiarono graziosamente l’un l’altro;
4° che nel due e nel trecento la leggenda era popolarissima non solo in Sicilia ma anche nel continente.
Rincalzano queste conclusioni i fatti che verrò esponendo.

 

Giuseppe Pitré
Studi di Leggende Popolari in Sicilia
Torino - Carlo Clausen
1904

     

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