La leggenda di Colapesce
 

Elementi, origine ed evoluzione
della leggenda di Colapesce.

 

Per potere accuratamente studiare la leggenda di Cola Pesce bisogna distinguere in essa il fatto principale dai fatti secondari, cioè il racconto del grande nuotatore, il quale vive in mare come un pesce ed in mare perde la vita, ed i particolari della imprecazione della madre, dell'anello o della coppa o d'altro oggetto prezioso che egli riesce o no a pescare.
Procederò con ordine, cominciando dall'argomento principale, il quale, se altro mai, esige un esame paziente e delicato.

Questo racconto è il complesso di svariati elementi, parte probabilmente storici, parte indubitabilmente mitici. Che possa esservi stato un grande nuotatore sceso più volte in mari pericolosissimi e riuscito a scrutarne il fondo ed a rivelarne i segreti, a nessuno parrà inverisimile per quanto ciò sia maraviglioso.
Erodoto
, p. e., racconta di uno Scillia o Scilliade macedone, che sotto il regno di Artaserse avrebbe nuotato sott'acqua ottanta stadi dalle Afete all'Artemisio per portare ai Greci la nuova del naufragio dei loro legni.
Il D'Alessandro afferma di aver conosciuto un povero pescatore, che dalla isola d'Ischia percorreva in ogni tempo e con le più pericolose procelle sempre a nuoto cinquanta stadi fino a Procida. Questo portento di natura si sarà abituato a viver lungamente nelle acque salse e vi avrà trovato, come si dice, il suo elemento.
Un principe curioso  l'avrà una o più volte indotto alla prova di tuffarsi in qualche gorgo con la promessa d'un premio o con la minaccia dì un castigo; in una di esse egli avrà perduto la vita.
Tutto questo è nell'ordine naturale delle cose e può bene esser creduto.
Ma quando si viene a determinare la data del fatto, cioè il 1223, o il 1233, sotto Federico II lo Svevo, allora bisogna lasciare la storia e rimettersi al piacére di chi la storia assolutamente ignora. Dato e non concesso che il fatto fosse avvenuto sotto Federico, la data del 1223 è cronologicamente inammissibile, perchè in quell'anno Federico erasi recato in Continente per abboccarsi col pontefice Onorio III; né può senza riserve passarsi quella del 1233, perchè nell'Aprile di quello anno Federico, essendo andato in Messina a sedar la rivolta di Martino Mallone e dei suoi complici (i quali fece parte impiccare e parte ardere), dovea avere tutt'altro pel capo che l'abilità di Cola Pesce e la curiosità di conoscerne vita e miracoli.

La leggenda, storicamente parlando, preesiste a Federico stesso e, come abbiam visto, venne da Mapes udita prima che Federico nascesse, raccolta da Gervasio forse appena questi nato, e scritta senza dubbio quando lo Svevo contava da quindici a sedici anni. Coloro che fissarono
quelle date ignorarono i racconti dei due scrittori inglesi, e si appoggiarono alle testimonianze degli italiani dei secoli posteriori, qualcuno dei quali forse avrà avuto sott'occhio la copia della Cronaca o del passo di Fra Salimbene. Intorno al quale io penso che tutte le particolarità ond'egli abbellisce il racconto siano delle fronde novelle d'un ramo già vecchio o, per dirla senza metafora, circostanze nuove adattate ad un motivo o ad un tema già conosciuto.
I tempi turbinosi di Federico II, le lotte fiere ed interminabili da lui sostenute contro la Curia romana ed il partito guelfo, le crudeltà attribuite a lui, figlio di Arrigo VI, spiegano il racconto del cronista parmigiano, la cui avversione allo Svevo ha il suo addentellato nella persecuzione agli ecclesiastici in genere, ai frati in ispecie e nominatamente ai Domenicani ed ai Francescani lombardi - dei quali era il Salimbene - che con un tratto di penna Federico bandì nel 1239 dal Regno.  Un principe come Federico, che tanto operò e tanto fece dire, non poteva non raccogliere attorno al suo nome aneddoti, fatti e racconti anteriori e contemporanei a lui: tanto vero che di pochi principi la tradizione letteraria e popolare si occupa così attivamente ed insistentemente come di Federico II, la cui leggenda attende sempre il suo critico.
Riportiamo adunque al sec. XII il racconto di Cola e vediamo se non sia conveniente di risalire indietro nella origine della leggenda.
Mapes afferma: "multi vivunt qui nobis magnum ex omni admiratione majus enarrant se vidisse circa pontura illud prodigi uni Nicolaum Pipem.

Si tratta di cosa raccontata, e noi abbiam ragione di sospettare - se noi sapessimo altrimenti -  qual fede debba aggiustarsi a questi novellieri, testimoni di cose non viste mai o viste solo nella loro accesa fantasia.
Il racconto era già tradizionale nel dugento e, preso qual è, nella sua semplicità ed aridezza, c'induce a ritenerlo molto più antico di quel che ci risulti storicamente parlando.

La versione di Gervasio fa venire dalla Puglia Niccolò; dalla Puglia lo fanno anche venire Raffaele da Volterra, Simone Majolo, G. Schott; città principale della Puglia, Bari.
Il portentoso nuotatore si chiama Cola, Nicola, Niccolò; anzi il citato poeta provenzale Raimon Jordan lo battezza senz'altro Nicola da Bari: Tals estarai cum Nichola de Bar.
Ora S. Niccolò vescovo di Mira in Siria è dalla fine dell' XI secolo in somma venerazione in Bari, e da Bari prende il nome; e se per alcuni egli è il protettore delle ragazze da marito, degli scolari e dei fanciulli in genere; per altri è il santo dei marinai, che lo invocano nei loro più pressanti bisogni.
In Gioìosa Marea, provincia di Messina, i pescatori l'hanno in così gran culto che se ne disputano il simulacro nella processione che annualmente gli fanno in Aprile; sì che la benedizione di esso, e per esso del sacerdote a ciò preposto, va fatta al mare o alla terra secondo che il contrasto (specie per numero di devoti) sia vinto dalla gente di mare o dalla gente di terra. I fanciulli stessi di tutta l'Isola invocano il Santo a proposito di acqua, quando, cioè, essendo piovuto, essi quasi accoccolati in terra, davanti le pozze, cercano ferro e chiodi; e la invocazione è questa:

Santu Nicola, Santu Nicola,
Facitimi asciari ossa e chiova!


Uso che ci richiama ad una circostanza caratteristica della versione del Mapes, cioè che Cola Pipe dimorava in mare raccogliendo ferravecchi.
In Un miracolo di S. Nicola, leggenda greca di Corigliano in Terra d'Otranto, il Santo, alla preghiera ed al pianto dei fanciulli per la siccità del paese, si fa mediatore tra il popolo e Dio, dal quale ottiene piogge torrenziali.
In Pollutri (Abruzzi) è una reliquia del Santo, che i Baresi una volta trafugarono, ma che dovettero subito restituire perchè passando il fiume Sinello i Baresi ne trovarono gonfie e straripate per guisa le acque da non potersi altrimenti mettere in salvo che riportando a Pollutri la mai tolta reliquia; onde riuscirono a ripassare a piede asciutto il Sinello, tornato quello di prima.

Come nelle Puglie e in Sicilia così in Francia, nei Paesi Bassi e in Germania si diffuse il culto del santo vescovo greco.
Il giorno di S. Nicola (6 Dic.) il pontiere della chiatta di Jons sul Rodano tiene festa ed assiste ad una messa che egli fa celebrare a sue spese, con tutti i membri della sua famiglia. Egli paga un navalestro, perchè, a detta del volgo, se il pontiere tocca i remi in quel giorno, qualcuno potrebbe annegare durante l'anno. I marinai del Rodano, poi, hanno questo motto pel S. Nicola loro protettore:
Fiate, Fiate à san Nicola,
Mais n' aubli pas de rama
.

Raccontano S. Metodio patriarca, S. Giov. Damasceno, Suida ed altri agiografi che navigando una volta dalla Licia ad Ascalona in Palestina S. Niccolò prevedesse una forte burrasca: e poiché il pericolo d'un naufragio era imminente ed i marinai supplicavano a calde lagrime il Santo che li salvasse, egli all'istante la sedò.
In un lungo viaggio intrapresa da un gentiluomo di Costantinopoli suo divoto, altra simile tempesta si levò minacciosa per tutta la ciurma; e già si era per naufragare quando postosi a pregare fervidamente, il gentiluomo fu portato via dall'impeto del vento senza che nessuno potesse dargli soccorso. Che è e che non è? Supplicando sempre il Santo, egli si trovò in un batter d'occhio trasferito in una sala del suo palazzo in Costantinopoli.
Questo scrive il citato S. Giovanni Damasceno, e con esso il Menologio greco.
Altre tempeste sedò a benefìcio dei naviganti Niccolò: e lasciando stare quella del 900, quando una comitiva di pellegrini si recava in Gerusalemme, e quella scampata nel 1070 dal vescovo Elpino o Elsino nell'Oceano, reduce dalla Dacia in Inghilterra, e raccontata da Jacopo
da Voragine, sappiamo dallo stesso scrittore che alcuni marinai, in procinto di affogare, così invocarono il Santo:
"Nicola, servo di Dio, se le cose che abbiam udite son vere, dacci la tua assistenza!„

Ed ecco apparire un uomo che avea la figura di lui, e dir loro:
"Eccomi a voi, non mi avete voi chiamato?
e aiutarli nella manovra del bastimento, sì che la tempesta cessò. E quand'essi andarono nella sua chiesa, coloro che non lo aveano visto mai, riconobbero essere stato lui che li avea assistiti in mare.
Un fatto simile si legge nel Medii aevi Kalendarium siccome accaduto in Normandia: e questi versi ne fan testimonianza:
Hear you who go by sea
Of this Baron we speak,
Who is in ali so kindly
And at sea so mighty
.

Nella Vie du grand et incomparable Saint Nicolas, stampata in Epinal nel 1835, citata dal Nisard  e riportata dal Sébillot, raccontandosi il miracolo operato in suo vivente dal Santo, si conchiude:
"Et c'est pour cela que les nautonniers le prennent pour leur patron et leur protecteur et qu' ils l'invoquent singulièrement en tous leurs voyages
„;
parole che rispondono a quelle dol Beatillo:
"Il comune protettore de' naviganti nella Chiesa di Dio è il glorioso San Nicolò„
, protezione che si è anche estesa fino a risuscitare marinai morti.


I marinai nel mare Egeo in tempesta ed in pericolo di perdersi dicono di averlo invocato e di essere da lui stati condotti in porto.
In Russia il Santo è patrono tanto de' fanciulli e de' nobili quanto dei marinai; ma il culto più fervido gli si professa nel bacino del Mar Bianco, dove in tutte le imagini egli viene rappresentato nell'atto di osservare con ansiosa tenerezza le furie delle onde.
Durante i temporali se i voti degli Arabi non sortivano il loro effetto, costoro costringevano a colpi di bastone i loro schiavi cristiani perchè facessero voti alla Madonna ed a S. Nicola.
I panini di S. Nicola, creduti efficacissimi in Sicilia a spegnere gli incendi, sono in Grecia impiegati per iscongiurare il mal tempo: e J. Spoon racconta che durante una grossa tempesta un signor Dimitry ne buttò in mare non so quanti.
Nel secolo XVII nessun greco s' imbarcava senza prendere con sé trenta di questi panini per servirsene all'occasione: nel qual caso invocava S. Nicola, protettore dei marinai. E nella stessa Grecia, un canto popolare che i marinai sogliono ripetere a capo d'anno comincia così:
"Oh che possiate armare una fregata dalla poppa sottile, dalla prua di leone, dagli alberi di bronzo, dalle sartie di fili d' oro, dalle vele di seta e dalle antenne d'acciaio; che Cristo vi stia al davanti, la Panagia nel mezzo e S. Nicola al didietro, al timone!„
.

Pietro di Langtoft
chiamò il Santo: "Il vescovo di s. Nicola, il cui aiuto non manca ai marinai, in tutti i mari, quando lo invochino„:
The Bishop of St. Nicholas, whos help is ey redie,
To shipmen, in alle seas, whan thei on him crie.

Nel sec. XVI Johann Lasicz in un suo raro libretto De diis Samagitarum ceterorumque Sarmatarum et falsarum Christianorum (1580) scrisse che S. Nicolò "a periclitantibus, iis vocibus excitatur: O sancte Nicolae, nos ad porta in maris trahe. Eidem sacella in litoribus consacrantur
E la preghiera: "Sancte Nicolae, nos ad portum maris trahe„ era ed è proverbiale.

Stando al Nork il Dr. Ullrich riferisce il seguente passo dell'a. 1531:
.... Cum turbine nautae
Deprensi Cilices magno clamore vocarent
Nicolai viventis opem, descendere quidam
Coelitum visus sancti sub imagine patris:

Qui freta depulso fecit placidissima vento.

Il Beatillo conta a migliaia le chiese consacrate al Santo.
Bassett somma fino a 370 le cappelle della sola Inghilterra, dove quella di Liverpool, la più famosa, fu consacrata l'a. 1361. Uno scrittore locale parla di una statua del Santo alla quale anch'essi i marinai prima del loro viaggio vanno a fare dei voti, per un felice ritorno.
Il medesimo raccontava Armstrong nel 1756 per una cappella di Ciudadela nelle Isole Baleari, nella quale i salvati appendevano le loro tabelle votive.

Sarebbe vera ingenuità, anzi grossolano errore l'accontentarsi di qualche punto, sia anche notabile come il nostro, di rassomiglianza tra alcune leggende del venerato Vescovo di Mira e la leggenda del palombaro siciliano o pugliese, per darsi ragione della provenienza della leggenda. Bisogna indagare altri fatti analoghi per metterli, se mai, a contribuzione come elementi che poterono influire o concorrere alla formazione della leggenda medesima.
Ebbene: se prendiamo le mosse dalla linguistica e dalla mitologia del Nord, abbiamo argomenti buoni a chiarire il nostro assunto.
Un nome di cattivo genio marino, Nick, nell'Inghilterra settentrionale è usato a significare, specialmente presso i marinai, satana. Il lettore non si allarmi a questo primo pauroso accenno.
Giacomo Grimm
nella sua Mitologia scopre tracce di questo nome e dello spirito maligno che esso significa nell'islandese Nyck, nello svedese Neck, nel germanico Necker, Nocca, nel danese Nòkke, nell'antico norvegiano Nikr, nell'antico normanno di Shetland Nikarr, Nikar, nel normanno moderno Hnickar, Hnikudr, nell'alto tedesco Nickus o Nichus, nell'anglo-sassone Nikor, (anche in Sicilia il popolo chiama Cola o Culicchia il diavolo quando non vuole nominarlo). Nick o Nix, altro nome simile, ebbe una fioritura rigogliosa di leggende germaniche, le quali, con le debite varianti, furono e sono diffuse nelle riviere, nei laghi e nelle correnti d'Austria e di Boemia.
Nikarr, violenza, non è estraneo al greco Nikè vittoria. Hnikudr o Hnickar è uno dei dodici nomi dati a Odino, il dio scandinavo di tutto, il Giove pluvio del Nord, da cui provengono le Nixen o Nixie, naiadi nordiche dei più profondi abissi marini, fate aquatiche nel mare, nelle correnti, nei laghi.
Niken - Nikar presso i Lapponi - è nella Scandinavia lo spirito che alita sulle o nelle acque, che sta nelle riviere, seda le tempeste, attira il favore di tutto un popolo.
In Fiandra i Neckers sono i geni delle acque. Nelle antiche voci Necca, Necco, Neckar, Nickor il Dr Ad. Wuttke non esita a vedere il governatore del mare, assumente il nome e la forma di qualche animale o di un uomo in barca.
Grimm parlando di Nickus o Nichus riconosce in esso uno spirito marino; e, per la identità di Nickus a Odino, la possibile identità tra Odino e Nettuno. Mannahrdt in questa opinione prende Odino come dio del mare. Pel Simmrock Odino è senz'altro ii Nettuno tedesco.
Qui un dubbio si affaccia in chi per la prima volta vegga fatta menzione di possibili parentele tra questi sinonimi nordici ed il nome di S. Niccolò: a qual secolo, cioè, siano essi da riportare come nomi comuni; o, in altri termini, se vi sia una data sicura della comparsa loro.
Per la risposta che esige, il dubbio è un po' forte: e non c'è mitologo, per quanto esperto nella storia e nella agiografia, che non debba riconoscerlo.
Certo, la prima volta che il nome di Nicor, come indicativo di deità marina, si riscontri in documenti scritti, è nell'VIII secolo, nel testo del Beowulf, e propriamente nel secolo in cui, a parte le precedenti (sec. V) raffigurazioni del Santo, è da stabilire il primo testo greco della vita di S. Niccolò, tradotto, secondo le più recenti indagini, in siriaco, nell' ottocento.
Il professore Anichkof  molto opportunamente rileva: il panigirico del patriarca Metodio riferirsi ad una vita scritta nel secolo VIII, ed un miracolo del Santo, descritto da Teofane, doversi fissare nei tempo dello Imp. Niceforo I (anni 802-811).
La provata esistenza del nome di Nikor in quel secolo se da un lato non esclude la anteriorità di esso, dall'altro non consente più sicure affermazioni come può consentirle per le opere del venerato vescovo di Mira, il cui culto è tra' più antichi del Cristianesimo.
C'è bensì a presumere la coesistenza della tradizione dei Nikers e della tradizione di S. Niccolò come patrono del mare; in difetto di documenti o monumenti storici non ci è consentito appigliarci a deboli ipotesi.

Altro dubbio: Nikor equivale etimologicamente a Nicola?
A questo potrebbe rispondersi con l'autorità incontrastata di Earle, Grimm, Kluge, Sanders, Skeat ed altri. Il prof. Earle, p. e., dice che Nicor è voce molto antica, correndo nei principali dialetti; ma della popolarità di essa nel vecchio mondo teutonico trova ragione nella espansione della leggenda cristiana. I germanisti, tra' quali Kluge, derivano la parola da un pregermanico nig, lavarsi, identico al greco lavare; cosicché Nix deve originariamente significare mostro di mare, che si diletta di bagnarsi e, in generale spirito marino.
Fermandoci su questa interpretazione, ci pare coll'Anichkof molto probabile, che S. Nicola, rappresentato da tutti i suoi soprannomi popolari penetrati nella mitologia teutonica, abbia dato il proprio nome alle deità dell'acqua, tra le quali il mostro marino, e perfino al diavolo. Non è, peraltro, una semplice opinione, ma fatto notissimo, che in Germania il dì 6 Dicembre, sacro a S. Niccolò, i mugnai gettano come offerta al dio delle acque varie cose; che nelle campagne del Nord i mugnai temono particolarmente Neck, e che in Germania la divinità del mare è qualche volta chiamata Nickel o Nickelmann.
Ora se Hnikudr e i suoi sinonimi equivalgono a Odino, e questo a Wuotan, che alla sua volta equivale a Nettuno, non potrebbe S. Niccolò essere un successore di Wuotan? Le facoltà marine del Santo nella leggenda popolare hanno la loro ragione nella degradazione di dei, semidei o altri esseri mitologici, probabilmente per opera inconsciente del popolo, la cui evoluzione graduale, insensibile, verso tutto ciò che fosse cristiano la Chiesa non ostacolò.
Questa nei suoi primordi contribuì efficacemente a sovrapporre all'elemento pagano il cristiano, a sostituire nomi della nuova religione a nomi analoghi delle teogonie preesistenti; e perciò molte delle pratiche religiose d'oggi son legate ad eroi del Cristianesimo, che pel tempo in cui
si festeggiano e per le qualità che loro si attribuiscono richiamano direttamente al più puro gentilesimo.
Invertendo le parti, vuolsi anche aggiungere che in Fiandra certi tratti di acqua, che una volta erano oggetto di culto verso i Neckers (onde il nome di Neckerputten), andarono alla pari del Duivelskol (buca del diavolo), appunto perchè la Chiesa volendo combattere queste superstizioni dipinse quei luoghi come diabolici, ed al Necker contrappose o accompagnò il Duivel.

Guardando un po' superficialmente a questa successione o analogia o relazione di nomi si potrà giudicare un po' debole la congettura; non così se vorrà studiarsi con una certa attenzione, e se si penserà specialmente che uno dei più maravigliosi nuotatori del Nord, il quale, secondo il Pontano, passava la più parte del suo tempo in mare, chiamavasi Niclas, che è quanto dire Nicola. Già uno scrittore del sec. XVI, il Laricz, nel citato libretto sulla divinità dei popoli del nord d'Europa e d'Asia, ebbe addire: "Nicolaus, quasi alter Neptunus, maris curam gerit; ed il Kettner nella sua Storia della Chiesa e della riforma di Quedlinburg nella Sassonia Prussiana affermò che "Nicolò è presso i Papisti ed i Moscoviti un dio delle acque e dei pesci", ne più ne meno che "un Nettuno cristiano„.
Ern. Curtius parlando dei saluti popolari dei Greci moderni, nota questo: ó aytos Nikólaos, e nel Nikólaos; vede il successore di Poseidone.
La opinione discutibile si muta in certezza quando si riflette che gli stessi neoGreci riguardano S. Nicola come il sovrano del mare e lo chiamano proprio: ò  Ποσειδών Χριστιανών; il Nettuno dei Cristiani.
Egli durante le tempeste abbandona il porto, cammina sulle onde con iscarpe d'erbe di mare, e col suo braccio invisibile conduce a luogo di sicurezza i piloti che l'hanno invocato.
Se si richiamano i passi letterari e popolari, nei quali si afferma che il nostro maraviglioso nuotatore rivelava i segreti marini (Ricobaldo, Fazello, Bugati), prediceva le tempeste ai marinai (Volterrano), montava sulle navi in burrasca e dava dei consigli sul da fare per salvarsi (D'Alessandro, Garzoni), non si terrà priva di fondamento la supposizione che lo influsso del santo prelato sul mare possa aver concorso alla formazione della leggenda di Cola Pesce, se pure questa non è una modificazione di quella.
E rifacendoci dallo agios Nikolaos dei Greci attuali e quindi dal successore di Poseidone e dal   Ποσειδών Χριστιανών, non possiamo riflettere sulla leggenda di Cola senza ricordarci di questo dio, che ha tanta relazione con la Sicilia e col Mar Jonio, e che veniva adorato a Taranto alla maniera stessa che sul Peloro avea un tempio e dava nome al Mons Neptanius.
E con Poseidone non può non affacciarsi alla nostra memoria un altro dio marino in istretta relazione con esso, Orione suo figlio, che, secondo Apollodoro, avrebbe avuto dal padre facoltà di camminare a piede asciutto sui mari.

Diodoro afferma che Orione, rinomato cacciatore, passasse in Sicilia nel tempo in cui si edificava la città di Zancle, e che fosse lo inventore dei lavori, i quali egli stesso avrebbe diretti, e che specialmente presedesse alla costruzione del porto di quella città. Fu desso che per guarentire la costa della Sicilia dai frequenti straripamenti del mare, formò, secondo Esiodo, il Capo Peloro.
Tutto questo ci riporta a Messina, al Faro, a Scilla e Cariddi, a Cola Pesce; e ci fa ricordare delle Sirene e di tutto un ciclo di favole che sono miti antichissimi.
E qui la tradizione popolare ci soccorre nella più bella maniera, ed efficacemente conforta la opinione che la leggenda di Cola attraverso a S. Nicola sia da riportare al mito di Nettuno localizzato là appunto dove la leggenda di Cola si è affermata con circostanze e particolarità minute e, diciamolo pure, non prive d'un certo carattere di credibilità.

Nella Storia di lu Gialanti Pisci di Messina, che forma la XVIIa delle versioni che seguono al presente studio, le Sirene son due, Scilla e Cariddi, una più pericolosa dell' altra, le quali nel Faro addormentano col loro canto tutti i marinai che vi navigano. Un gigante, brutto di figura, soprannominato Pesce, per la sua singolare attitudine al nuoto, riesce ad incatenarle trascinandole fuor d' acqua. I Messinesi gli fanno un vero trionfo, lieti che il loro concittadino li abbia con un colpo di mano liberati da esseri così insidiosamente malvagi; fanno un gran dono al liberatore e gli alzano una statua e allato le due Sirene incatenate: ma Cola muore giovane, nuotando sott'acqua da Messina al Faro e dal Faro in Calabria.

Il mito classico di Circe e delle Sirene, per un processo di mitologia iconografica, misto e confuso con quello di Nettuno, qui è trasparentissimo; e non deve durarsi fatica a trovarne la spiegazione con la fonte di Nettuno nel porto messinese,  dove lo scultore G. A. Montorsoli volle rappresentare Nettuno con le statue di Scilla e Cariddi, mezzo donne, mezzo mostri marini, dibattentisi incatenate. Nè si dica che questa leggenda sia del sec. XVI, giacché la leggenda classica preesiste e, rimasta nella tradizione, può bene essere stata accomodata dal popolo stesso al monumento del Montorsoli con gli elementi dell'antichità.

Più verginalmente bello, il mito classico quale ce lo conservò Omero si presenta in una leggenda inedita, dove un capitano di nave, valicando lo Stretto, non si lascia per verun modo cogliere alle insidie lusinghiere delle incantatrici Sirene. Egli distribuisce ai suoi marinai della stoppa, perchè se ne turino le orecchie, ed esso stesso, con le orecchie turate, monta sulla prua del legno e suona fortemente a distesa per impedire che la ciurma sentendo si lasci allettare all' insidioso canto.
E voglio qui farne menzione non già perchè vi sia da scoprire tracce dirette di Nettuno; ma perchè in nessun posto dell'Isola io intesi, nelle mie rapide corse, gli echi dei miti greci, più intatti e precisi di quello che li abbia intesi in Messina e nella pittoresca riviera che conduce a Torre di Faro, dove da un pescatore e da una donnetta udii a parlare come di persone morte ieri, ma con nomi vaghi e comuni, di Ulisse, di Circe, delle Sirene e di Nettuno, identificati col nostro Cola Pesce.
Altri miti classici potranno riconoscersi e si son riscontrati qua e là in novelline, favole e leggende tradizionali viventi; ma questo io non l'ho trovato mai fuori quella città.

Ed ora che la leggenda, riportata alle sue probabili origini, pare rappresenti un mito classico, passato dapprima in una leggenda agiografica cristiana, diffusa, mistificata, trasformata nel Nord d'Europa, è necessario un richiamo egualmente classico, il quale tra le fonti anche indirette della storia di Cola Pesce ha diritto ad una certa considerazione.
Palefato
, grammatico e filosofo egiziano o ateniese, parlando nelle sue Storie incredibili di un famoso palombaro, così ne dice:
Glauco di Antedone in Beozia fu un nuotatore a nessuno secondo. Un giorno, in presenza di tutti coloro che erano nella città, vicino alle porte di essa, prese a nuotare, e nuotando disparve. Riveduto dipoi ed interrogato dove fosse stato nei giorni della scomparsa, rispose: in mare. Ma ciò non era vero. Per questo egli veniva chiamato Glauco marino. Se non che, capitato in una fiera, fu da essa divorato; e perchè non lo si vide più ritornare fu creduto abitasse in mare e quivi avesse sua sede.

A questa favola, o storia, quale ci è stata tramandata nel testo greco originale, manca una particolarità, che va ricordata.
Glauco, palombaro e pescatore eccellente, allorché si allontanava a nuoto dal porto, andava a stare in luogo recondito, ove raccoglieva e teneva in serbo dei pesci che poi, quando per cattivo tempo di mare altri pescatori non ne avevano, vendeva a caro prezzo.
Questa particolarità fa dell'ardito nuotatore un furbo spacciatore di pesci; ma non muta la figura dell'uomo, nè toglie all'essere leggendario il carattere pel quale egli passò nella tradizione greca raccolti da Palefato.
Glauco ha virtù natatorie così singolari da meritare antonomasia il nome di marino. La fantasia del popolo e degli scrittori creò attorno a lui un'aureola di opere eccezionali, l'una più maravigiiosa dell'altra; sicché il pescatore, il palombaro, per testimonianza di Eraclito, diventava un vate marino, che in un'isola da lui abitata, ai navigatori ad essa accostantisi, additava la maniera da tenere nel viaggio e prediceva quel che ebbe per avvenire in mare.

Degli uomini marini qualche cosa fu detto nel II capitolo (Leggenda orale): e della loro esistenza deve parer notabile la localizzazione nei mari di Spagna, sia che si parli del giovane di Liérganes di Feyjoo, sia che si evochi la memoria dell'uomo di Plinio. Ricordo il fatto per darne una spiegazione e farvi un richiamo.
Non è improbabile che in quella leggenda sia adombrata la favola di Tritone, parte uomo, parte dio, e come tale, adatto a vivere in mare, portando gli ordini di suo padre Nettuno, nella cui corte, secondo Esiodo, era con altri Tritoni, addetto all'ufficio di calmare le onde e sedar le tempeste. E la probabilità guadagna quando si rifletta su ciò che il medesimo Plinio scrisse, cioè:
"che al tempo di Tiberio Imperatore fu dagli ambasciatori del Portogallo riferito a Roma aver essi veduto e sentito presso Lisbona un uomo marino, chiamato Tritone, cantare in una grotta e cantando sonare con una conchiglia marina!"
La qual cosa e pel nume e pel mare che bagna la penisola iberica concorda con ciò che s'è riferito innanzi  della Storia di Plinio intorno all' uomo marino di Cadice ed anche con ciò che fu affermato da Draconetto Bonifacio, egregio nelle armi e nella nobiltà; il quale, militando in Ispagna, avrebbe veduto un insigne Tritone, uomo di mare nel volto e nel corpo tutto fino al pube.

In due punti di questo studio ho affermato la parte fantastica del racconto poetico di Gioviano Pontano esser minore di quello che potrebbe credersi.
Le prove di quest'affermazione risultano dall'esame di alcune versioni popolari.
Il Pontano canta che le belve del mare temono Cola e tacciono i cani ed i lupi ululanti nel mare di Scilla. E nel racconto popolare di Roccalumera i mostri han paura di lui.
In Pontano a Colan neptunia ardirà sola placent, e pescatore, egli solls gaudet arenis; onde un giorno la madre: Intentimi increpuit dictisque cxarsit amaris; e nella tradizione, essa stessa, incollerita al vederlo sempre sulla spiaggia, lo impreca.

Inoltre, come nella medesima tradizione la pelle dì Cola si trasfigura in quella di pesce, così nella Immanitate del Pontano Colan acquista quasi l’effigie di pesce e diventa lividus, squamosus. E come Colan in grave pericolo di vita con un coltello ferisce e mette in fuga Scilla che è per divorarlo (Pontano), così Niccolò nella versione di Napoli, con eguale arme, si libera d'un mai visto mostro che l'ha ingoiato. Simili, identiche poi le altre circostanze impersonate nel Federico del racconto pontaniano e nell'indeterminato re del racconto orale.

Venendo ora ai particolari della leggenda, cioè alla maledizione della madre di Cola ed all'anello buttato in mare, procurerò di esser breve, non più di quanto esigano i particolari medesimi.
La imprecazione della madre di Cola è importante, ma non necessaria: tanto vero che in molte versioni così letterarie come popolari manca: ond'io la credo nata molto posteriormente al racconto primitivo quale particolarità di grande effetto per quanto naturale e comune. L'idea delle gravi conseguenze della maledizione materna è radicata in molti popoli, e si capisce come possa aver trovato presa nella leggenda di Cola.

Si crede, infatti, che alla maledizione della madre seguano sventure d'ogni maniera, malattie e morte. La fanciulla italiana, disubbidiente alla madre vedova, che la reputa ancor troppo piccola perchè possa sposarsi, annega in mare per imprecazione di essa che la vede fuggire con l'amante.
La fanciulla bulgara  Janca, che ha sposato, dissenna e si annega nel Danubio in seguito della maledizione; e la fanciulla slovacca, che troppo si trattenne col suo amico alla fontana, diventa platano a foglie larghe, proprio per quella maledizione.
Assai più antica dev'esser la ricerca sottomarina dell'anello, perchè se ne hanno tracce nelle novelline tradizionali e nei ricordi scritti.
Le novelline raccontano di una donna capricciosa, la quale dichiara che allora sposerà il tale re o principe che l'ama perdutamente quando egli sarà buono a riportarle l’anello che essa gettò (dicendo però che le cadde) in mare o in un fiume valicando sopra un cavallo fatato.
E l'anello viene raccolto da un giovane - il minore di due o tre fratelli - favorito da un pesce da lui stato precedentemente aiutato o beneficato, o dal re dei pesci, o da altro essere aquatico.

Basta percorrere le raccolte de' vari paesi per trovarne varianti un po' dappertutto: in Sicilia, in Sardegna, negli Abruzzi, in Toscana,  nella Lorena, nella Bassa e nell'Alta Bretagna, nella Boemia, nella Serbia, in Danimarca, per non dire di altre regioni e contrade. Se non che, quel che per l'Italia è un anello raccattato dal pesce fatato, per la Serbia sono chiavi (anche queste talora si riscontrano nella canzone, ma non son fatate), che la bella getta, e che un ranocchio egualmente fatato riporta; e per l'Alta Bretagna è una centria. Il medesimo aneddoto racconta lo Straparola nelle sue Tredici piacevoli Notti.
Il motivo di una pietra maravigliosa o di qualche cosa di gran pregio caduta in mare e raccolta da un animale grato, è nelle leggende buddistiche; nelle maomettane ricomparisce egualmente, e lo Steinthal dice un re che, andando una volta sopra un fiume, ebbe da un ranocchio fatato raccolto l'anello.
Qui c'è lo incanto, la magia, il fatto soprannaturale insomma, e perciò si esce, pare, dalle condizioni normali. Dico pare, perchè il passaggio di una persona celebre dallo stato comune di uomo ad essere maraviglioso è ordinario, per un processo naturale, per una evoluzione vorrei quasi dire necessaria.

Nel medio evo Virgilio poeta diventa in mezza Europa ed in parte nel popolo meridionale d'Italia uno stregone; Ovidio, negromante negli Abruzzi; Dante Alighieri nell'alta Italia; Petrarca nel Parmigiano; Boccaccio nel Certaldese,
Pietro d'Abano, medico e filosofo padovano, nel Feltrino; Veneziano in Sicilia. Attila è in Italia il flagello della Provvidenza, il martello del mondo;  Ecelino da Romano un demonio, uno spirito maligno e peggio.
Cola, palombaro eccezionale, passa in Cola Pesce, in pescecola, in anfibio, in antropo e, ultimamente, in negromante. In Napoli la leggenda comincia a farci sospettare questa strana credenza. Il citato de Petris servendosi della patria tradizione accenna ad "una imputazione di stregoneria„ che il volgo avrebbe fatta a Cola per ispiegare le opere sorprendenti che egli riusciva a compiere.

Chi abbia conoscenza, anche superficiale, della poesia dei popoli d'Europa ricorderà una canzone narrativa che con un titolo sommario si dice dell'Anello caduto in mare. Questa canzone è così largamente diffusa che io ho potuto studiarne non meno di sessanta versioni. Il Nigra, che ne pubblicò otto, fece di quelle da lui conosciute fino al 1888 due distinte serie: una italiana, una francese. Nella prima il tema si svolge molto semplicemente.

"Una ragazza lascia cadere l'anello nell'onda. Chiede a un pescatore di pescarglielo. Il pescatore consente, ma vuole essere pagato. La ragazza offre danaro e la borsa ricamata. Il pescatore rifiuta danaro e borsa, e domanda come mercede un bacio. Secondo le varie

lezioni, il bacio è accordato subito, o soltanto dopo la risposta a varie obbiezioni, o è rifiutato, ovvero non si sa se sia accordato o rifiutato”.

Nella serie francese "la ragazza lascia cader nell'acqua l'anello, o le chiavi d'oro, o altro: ma ordinariamente, quando perde, o s'accorge d'aver perduto l'oggetto, è già salita sopra una barca dietro invito del marinaio. Chiede che le sia pescato, diremo l'anello, perchè è l'oggetto più frequentemente designato. Il più giovane dei marinai, il galante, si getta nell' acqua. Piomba una e due e tre volte: tocca l’anello, ma si annega. Compianto della madre e del padre dell'annegato.„

E qui il Nigra si chiede se la canzone italiana e la canzone francese, cioè se i temi delle due serie, abbiano una medesima origine, e quale possa essere. Al quesito egli non risponde, perchè proprio nel 1888 si era iniziata intorno all'argomento un'altra ricerca, alla quale finora hanno partecipato e italiani e francesi e tedeschi e greci.


Il quesito per lo studio di questo particolare della leggenda non ha, a creder mio, la importanza che ha invece per la poesia popolare.
Per la leggenda importa vedere se il tema dell'anello sia passato alla canzone, o, in altri termini, se relazioni di parentela esistano tra l'una e l'altra.
Se già troppo non mi fossi indugiato nell'argomento, io vorrei in proposito dimostrare che queste relazioni, apprezzabili a prima vista, son cosi deboli da togliermi l'animo di seguirle e fissarle all'attenzione dei critici.

La ballata o canzone dell'anello, nelle sue forme più semplici, è una schietta creazione della fantasia, od anche un pietoso e patetico ricordo d'un fatto realmente accaduto; ma, se ha analogia, non deriva punto dalla leggenda di Cola Pesce. Di che le ragioni son varie, e precipua questa: che in Sicilia, la terra della leggenda di Cola Pesce, la canzone non esiste, o meglio, esiste in tal forma da accusare la sua recente provenienza dall'alta Italia, provenienza che le dà una veste ibrida, addirittura impossibile. E sì che se una forma ritmica avesse dovuto assumere il particolare in discussione, della leggenda, questa forma avrebbe dovuto essere anzitutto e soprattutto siciliana.
Rinunciamo pertanto alla fonte della canzone e quindi allo esame di essa come parte integrante dello studio della leggenda. Ben vi si fermò con amore ingegnoso il prof. Ullrich, e lo sospettarono bravi scrittori: ma il sospetto non può reggere alla copia dei documenti popolari ed eruditi che il Folklore ha oramai a sua disposizione. Potrebbe tutt'al più cercarsi nella tradizione letteraria la fonte del particolare della pesca dell'anello, della coppa, o d'altro oggetto prezioso della leggenda: e forse ci sarebbe da discutervi un po' sopra; i rapporti però tra la leggenda e la canzone, come ho detto, non è lecito affermarli.
Nel suo viaggio per la Grecia, lo storico ed oratore Pausania racconta:
"Minos, re di Creta, impermalito contro Teseo che gli contrastava il suo amore per Peribea, gli rinfacciò di non esser figlio di Nettuno: tanto vero che non sarebbe stato buono a riportargli l'anello d'oro che egli, Minos, avrebbe gettato (e intanto gli gettava) in mare. Stimolato alla dura prova, Teseo vi si tuffò di un subito, e raccoltolo lo riportò fuori all' istante, insieme con una corona d'oro ricevuta in dono dalla dea Anfitrite".
La forma rudimentale dell'aneddoto dell'anello qui è evidentissima; ma io mi guarderò bene dall'accettarla come fonte. Quando un fatto come questo è quasi naturale e può comunemente ripetersi od avvenire un po' dappertutto, a che cercarne esempi antichissimi per trovarvi le prime radici o i punti di partenza?

Nel vecchio Giappone una pittura della scuola del Yamato (secc. XI-XIV) rappresenta una leggenda tradizionale: una donna che va sott'acqua a prendere una perla, che darà (cavalleria femminile ignota all'Europa d'oggi) al marito; ma chi oserà vedervi una fonte della ballata?
Anche oggi, ogni anno, in Grecia, il 18 Gennaio (6 col vecchio stile) per la festa dell'Apparizione, in mezzo a folla immensa di uomini e di donne sulla riva, e di soldati sulle navi, un vescovo pomposamente vestito getta in acqua un Crocifisso, e un gran numero di bravi nuotatori si lancia a capofitto per andare a ripescarlo. Silenzio solenne e tremebondo regna nella folla: tutti hanno gli occhi fìssi sulla superficie delle acque, e solo dopo pochi minuti, un dopo l'altro rivengono tutti a galla, finché uno di essi, salutato da gridi di gioia, vien fuori col prezioso trofeo in mano.

Eppure nessuno sognerà di riconoscere in questa cerimonia una reminiscenza del mito di Minos e Teseo, e molto meno una derivazione di parentela con la ballata dell'anello.
Tutt'al più potrà pensare, e con certo fondamento, alla riforma d'un antichissimo sacrificio che si faceva a Poseidone.

Che dire poi della cerimonia dello sposalizio del mare, con l'anello che il Doge gettava in acqua?

 
 

Giuseppe Pitré
Studi di Leggende Popolari in Sicilia
Torino - Carlo Clausen
1904

     

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