Giuseppe Cavarra

Colapesce nella letteratura Siciliana

Il Pitrè rileva che tra le narrazioni della leggenda di Colapesce quelle dateci dagli autori messinesi sono "le meno calde di entusiasmo, prive di originalità, scarse di novità, anche di minime circostanze particolari"

Nella versione di Francesco Maurolico (sec. XVI), ritenuta dal Pitrè di "nessun valore", Cola è un abile nuotatore (natator incredibilis) catanese che rimane sotto le acque per giorni interi; muore mentre fruga negli abissi di Cariddi alla ricerca di una coppa lanciata in mare dal re Federico. I fatti narrati sono riferiti al 1233.

Nel racconto di Rocco Gambacorta (sec. XVI) Colapesce, "Messanese", vive in mare notte e giorno, "fuggendo la terra, et la conversazione humana". Durante una festa, il re (è ancora Federico) lancia in mare un vaso d'oro che l'abile nuotatore, "presente tutto il popolo", porta subito alla luce. Il re lancia il vaso una seconda volta e invita il nuotatore ad immergersi. Stavolta Colapesce non riaffiora. Rimane giù a "conversare con i pesci vivo", fino a quando non trova "perpetua sepoltura" nel ventre di uno di essi.

Breve e dedotta in gran parte dal Pontano è la narrazione che si legge in Giuseppe Buonfiglio e Costanzo (sec. XVII): Cola Pesce, catanese, è un "gran nuotatore", che vive nel mare per più giorni di seguito; muore mentre tenta di pescare una tazza d'oro lanciata dall'"Imperatore Federico [ ... ] vicino al porto di Messina" .

Negli Annali di Caio Domenico Gallo (sec. XVIII) Colapesce è un nuotatore "da recar meraviglia a' posteri". Lasciata fin da bambino la "compagnia degli uomini", vive in mare ed è "tenuto in molto pregio in Messina per la rara maniera del suo vivere". Il re Federico lo mette alla prova facendogli pescare una tazza d'oro lanciata ben due volte nel tratto di mare sotto il palazzo reale. Tutt'e due le volte Cola riporta la tazza alla luce. Soccombe al terzo tentativo, "districar non potendosi o difendere dal corso e furore delle acque". La narrazione del Gallo dipende dal Fazello con una sola eccezione: il luogo in cui si svolgono i fatti per il Fazello è in generale, il "mare di Messina", per il Gallo il "Porto di Messina, ed appunto sotto il Palazzo Reale".

Nel 1840 la leggenda appare nell'opera di Giuseppe La Farina come segno dell'interesse dell'autore per "le memorie, le tradizioni e le vicende locali", e della "sua consapevolezza della necessità ed utilità della loro conoscenza per un più adeguato processo di educazione civile, e patriottica". Il Palazzo Reale, "distrutto per via di tremuoti, e più per lacrimevoli ire municipali" e sostituito col Porto Franco, richiama alla memoria dello storico il nome del "famoso Cola Pesce" che scendeva nell'abisso a "deliziarsi nelle algose sue sedi" e, durante le tempeste, correva a soccorrere le navi "combattute da' venti" su quel mare che "gli era vita e dimora" e che un giorno "gli dovea essere sepolcro". I connotati del Colapesce lafariniano sono quelli dell'eroe romantico che si afferma attraverso l'agire vibrante di coraggio e di passione. I luoghi etici del suo agire sono l'impeto vitale, il gusto sublime, l'insorgenza titanica e la morte gloriosa.

Felice Bisazza racconta l'avventura di Colapesce in versi improntati a fantasiosi vagheggiamenti e a superficiale lirismo. Per quanto riguarda le situazioni, il racconto aduna le componenti di un romanticismo oscillante tra facile malinconia, patetismo e aspirazione al sublime. La narrazione, che il poeta vuole connotare di intensa drammaticità, spesso è affidata alle aperture cantabili sostenute dalla levità della parola e dal facile giro metrico.

Quello che il Bisazza aggiunge in una nota utilizzando elementi desunti dalla tradizione orale messinese costituisce una versione vera e propria della leggenda. Crediamo che valga la pena riportarla per intero.

"Nicolò Pesce, uno dei più famosi sottomarini siciliani, vivea in Messina nel secolo Xlll, regnando Federico Il in Sicilia. Si vuole, che le sue dita fosser congiunte da quella membrana, che veggiamo nelle oche, e che avesse ampiissimo petto. Assuefatto sin da fanciullo a viaggiar lungamente sott'acqua, cinto d'una bianca fascia, e mettendo fiato ad un corno, ch'era uso di seco condurre, si vivea dandosi attorno a pescar coralli e conchiglie. Corse la voce di sì prodigioso uomo alle orecchia del re Federico, che gli fece cenno di lanciarsi nei vortici di Scilla e Cariddi, infami di tanti naufragi, e sopra misura tempestosi; e a vie meglio condurlo al suo piacere, lanciò in quell'acque una tazza d'oro; e con quella ne uscì il Nicolò fra l'eco festivo di mille voci. Il re volle altra volta che si ricacciasse entro quei gorghi; ma la seconda volta il misero uomo non si vide più risorgere da quell'acque; e fin oggi la sua memoria è pianto".

Il recente racconto di Maria Costa, pervaso da tensione e da tenera grazia, delinea il ritratto di un Colapesce in cui sono simboleggiate l'audacia e la labilità delle sorti umane, mentre i versi di Paola Fedele creano l'atmosfera meditata e raccolta di un discorso interiore, dove la vicenda del mitico nuotatore, espressa mediante un groviglio di sensazioni, assurge a significazione di una coscienza esistenziale minata dall'inquietudine.

 

Giuseppe Cavarra
La leggenda di Colapesce
Intilla editore

     

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