LE BULLETIN DE LA BIPEDIE INITIALE
Editée par le Centre d'Etude et de Recherche sur la Bipédie Initiale: BIPEDIA
A Review from the STUDY and RESEARCH CENTER for INITIAL BIPEDALIS

BIPEDIA N° 24 - Dédié à Helmut Loofs-Wissowa et Richard Greenwell.

 Janvier 2006


ALCUNI STRANI ADATTAMENTI DEGLI ESSERI UMANI ALLA VITA SOTT'ACQUA

 

"Ma i delfini non hanno dimenticato che sono stati uomini
 e anche nella loro anima incosciente ne serbano il ricordo"  (Oppiano)

 

Affermare che l'uomo non sia un mammifero terrestre sarebbe un'asserzione priva di alcun fondamento; c'è però da rilevare che esistono delle caratteristiche, nell'anatomia e nella fisiologia degli esseri umani, che ne fanno un mammifero terrestre davvero "sui generis".
Non sfuggono infatti, ad un'osservazione attenta, alcune incongruenze che mal si accordano con un'esistenza supposta sempre "terricola" dello stesso uomo, in quanto esiste tutta una serie di correlazioni che legano in maniera abbastanza evidente l'uomo all'ambiente sommerso, correlazioni che non è dato riscontrare in alcun altro mammifero non schiettamente acquatico.

La più appariscente di tali caratteristiche è probabilmente l'assenza di una folta peluria, assenza che si rileva fra i Mammiferi che hanno legato strettamente la loro esistenza all'ambiente acquatico: tale è il caso dei Cetacei, dei Sirenidi, nonché degli elefanti ( strettamente imparentati con i precedenti ) e degli ippopotami ; si tratta, negli ultimi due casi, di pachidermi prettamente terrestri che non possono sopravvivere che per poco tempo se non nei pressi di bacini idrici, nelle cui acque potersi immergere molto frequentemente.

C'è da dire peraltro che Mammiferi molto grandi necessitano meno degli altri di una pelliccia, in quanto le loro stesse dimensioni li riparano adeguatamente dal freddo. Una legge dell'ecologia, nota come "regola di Bergman", asserisce infatti che, poiché il volume di un corpo ( e quindi anche di un animale ) è una funzione cubica, mentre la sua superficie è una funzione quadratica, in relazione alla propria massa corporea un animale di grandi dimensioni ha una superficie esterna minore di quella di un animale di piccole dimensioni. Poiché la zona di contatto con l'ambiente esterno è proprio la superficie esterna, un Mammifero di grandi dimensioni può quindi tollerare meglio le basse temperature. Per questo motivo animali grandi non hanno la stessa necessità degli animali più piccoli di proteggersi dalle temperature esterne ; ciò spiega fra l'altro il raggiungimento di maggiori dimensioni da parte di quegli animali che vivono in climi più freddi. Se però questa argomentazione potrebbe essere invocata per spiegare l'assenza di pelliccia nei pachidermi e nei grandi Cetacei, è evidente che essa non spiegherebbe come mai anche i Cetacei più piccoli ( Delfini, Stenelle, Inie, ecc ) ed i Sirenidi ne siano sprovvisti.

La spiegazione dell'assenza della pelliccia è, almeno per Cetacei e Sirenidi, di tutt'altro tipo. Tanto più che la forma del loro corpo non è assimilabile in alcun modo ad una sfera, presupposto essenziale per l'applicazione della regola di Bergman: la loro forma allungata tende piuttosto, infatti, ad aumentarne la superficie di contatto con l'ambiente esterno. Nel corso dei loro adattamenti morfologici esteriori, tali animali hanno infatti privilegiato una maggiore idrodinamicità a scapito di una ottimale coibentazione termica, che viene invece assicurata dalla presenza di uno spesso strato di grasso sottocutaneo.

Nel caso dell'uomo, l'assenza di fitta peluria parrebbe un fattore negativo, tale da creare problemi alla sua stessa sopravivenza : essa si rivela infatti svantaggiosa da un punto di vista della termoregolazione, se si considera che l'uomo deve ricorrere ad indumenti di vario tipo, non esclusa la stessa pelliccia degli animali, al fine di ripararsi dal freddo. Sembra infatti proprio un'incongruenza, il fatto che l'evoluzione del genere umano abbia determinato la perdita di una caratteristica che ha rivelato la sua utilità e la sua funzionalità finanche nei mammiferi viventi in ambienti caratterizzati da limitate escursioni termiche ! In effetti, se non si considera la possibilità che il genere umano abbia assunto, in un determinato stadio della sua evoluzione, degli adattamenti sensibilmente diversi da quelli che gli si attribuiscono comunemente, risulta difficile trovare una valida spiegazione a questo strano processo evolutivo.

Accanto agli innegabili ed ovvii vantaggi che apporta, una pelliccia folta determina, in virtù del maggiore attrito, una certa difficoltà di avanzamento dell'animale al nuoto. Per questo motivo la riduzione della peluria è, nei Mammiferi, tanto maggiore quanto maggiore è l'adattamento all'elemento acquatico.

La pelliccia della lontra - considerata, neanche a dirlo, molto pregiata -, pur essendo abbondante ed assai funzionale per la protezione dell'animale dal freddo, è molto compatta, il che permette di ridurre la resistenza al nuoto subacqueo: accanto ad altre specie di Mustelidi che non hanno alcuna affinità per l'ambiente acquatico (ad es. la martora o la faina), passando per altre via via più adattate, come ad es. la puzzola, essa manifesta i migliori adattamenti della sua Famiglia, e non solo (la lontra è in Europa il mammifero terrestre che meglio degli altri si è adattato a vivere in ambiente acquatico). Tali adattamenti che permangono tuttavia ad un livello inferiore rispetto a quelli di altri gruppi di Mammiferi.
Non si nota ad es., neanche nei Mustelidi più "acquatici", quella tendenza all'eliminazione della peluria che si verifica invece in Mammiferi maggiormente adattati alla vita nell'acqua.

Ciò potrebbe essere spiegato con l'habitat in cui questi animali vivono. Una prima osservazione è relativa alle profondità operative, relativamente modeste anche nel caso della lontra marina : mentre Focidi ed Odobenidi sono in grado di raggiungere profondità di diverse centinaia di metri, le cui notevoli pressioni ostacolano non poco il movimento di qualsiasi corpo immerso, per le lontre è sufficiente sapersi immergere a pochi metri di profondità, in quanto nel loro habitat gli abissi non esistono. Un'altra osservazione è relativa allo stesso habitat, che non può prevedere un'eccessiva specializzazione all'ambiente sommerso, in quanto, se troppo spinta, essa potrebbe limitare la capacità dell'animale di sfuggire ai predatori in ambiente terrestre. D'altra parte, per la regola di Bergman, le piccole dimensioni della specie ne sconsiglierebbero da sole la perdita o la riduzione della peluria.

Nelle foche e nelle otarie, indubbiamente più adattate delle lontre a vivere in ambiente acquatico, la pelliccia, sebbene ancora presente, è ridotta e coadiuvata da uno spesso strato di grasso sottocutaneo avente la funzione di riparare l'animale dai freddi intensi. Nei trichechi, in cui la pelliccia è meno folta che nelle specie viste in precedenza, la funzione di coibente termico sembra assegnata quasi esclusivamente al solo pannicolo di grasso.

Gli unici mammiferi completamente sprovvisti di pelliccia si riducono pertanto, oltre che ai già ricordati pachidermi, Cetacei e Sirenidi, al solo uomo. Forse degno di nota è che anche l'uomo presenta, al pari di queste categorie di animali, una certa tendenza all'accumulo di grasso sottocutaneo.

Un'altra caratteristica fisiologica che lega l'uomo all'acqua è la possibilità di compensare, attraverso una semplice pressione del pollice e dell'indice, la pressione idrostatica esterna con quella interna. Le due dita, opponibili, sono infatti in grado di serrare il naso, permettendo, in seguito ad un processo espiratorio forzato, il pareggiamento a livello del timpano della pressione idrostatica esterna con la pressione interna dell'aria. A ben vedere, non esiste nessun altro mammifero che sia provvisto tanto di dita opponibili quanto di narici esterne che, come nell'uomo, permettano tale processo.

Ora, la possibilità di compensare è una condizione indispensabile per qualsiasi animale che viva nell'acqua, in quanto la pressione dell'acqua, che aumenta in misura lineare con l'aumentare della profondità, graverebbe altrimenti sulla membrana timpanica, determinando una sua introflessione prima e la sua rottura poi.
Possedere questa caratteristica è fondamentale per un animale acquatico, ma non ha evidentemente alcun senso per un animale che non si immerga a profondità tali da costituire, a causa della pressione idrostatica, un pericolo per la membrana timpanica.

 


È opportuno rilevare che i mammiferi maggiormente adattati alla vita nell'acqua, i quali non possono compensare allo stesso modo dell'uomo a causa della perdita progressiva dell'arto superiore (nel quale, trasformato in pinna, le cinque dita sono ridotte a delle semplici vestigia), sono in grado di compensare con una semplice pressione della lingua sul palato. I mammiferi che non vivono in acqua non sono in grado di compensare, anche perché dovrebbero risolvere insormontabili problemi di carattere anatomico.
L'uomo è, in una via di mezzo, in grado di compensare grazie ad un metodo come quello prima accennato, detto "metodo del Valsalva", sebbene alcuni individui particolarmente dotati siano in grado di farlo allo stesso modo dei mammiferi marini, esercitando una semplice pressione della lingua sul palato molle ("metodo di Marcante-Odaglia" .

Se, come è assodato, lo sviluppo individuale ripercorre quelle che sono state le tappe nel cammino evolutivo della propria specie, la straordinaria attitudine all'acqua che hanno i neonati nelle fasi iniziali del loro sviluppo non può che essere un segno dell'analoga attitudine che in passato doveva caratterizzare l'intero genere umano.

E' sorprendente che i neonati nati nei parti "acquatici", praticati per primo dal medico sovietico Igor Tijarkovskij e divenuti in seguito di ordinaria amministrazione in vari centri di tutto il mondo, siano immediatamente in grado di nuotare ed addirittura di trattenere il respiro ed andare sott'acqua. Tali familiarità con l'elemento liquido permangono poi acquisite in tali bambini, mentre i piccoli nati nei tradizionali parti "asciutti" diventeranno uomini che dovranno imparare a nuotare, con tutte le difficoltà del caso.

Qualsiasi mammifero terrestre si avvicina all'acqua, non fosse altro che per abbeverarsi; molti si bagnano per pulizia o per motivi legati alla termoregolazione ; pochi sono quelli che dimostrano con l'elemento liquido una familiarità tale da permettere loro delle vere e proprie immersioni al fine di procacciarsi il cibo o di utilizzare l'acqua per qualche funzione della loro vita (ad es. la già ricordata lontra o il macaco del Giappone, che ha imparato a sostare nell'acqua calda delle sorgenti termali per riscaldarsi durante la stagione fredda); probabilmente uno solo è in grado di immergersi fino a profondità tali da rendere possibile un particolarissimo fenomeno conosciuto come "blood-shift". Quel mammifero è l'uomo il quale, in comune con i mammiferi acquatici, sfrutta il singolare privilegio costituito dall'azione della pressione idrostatica delle alte profondità, che, richiamando il sangue arterioso dagli organi periferici in favore degli organi interni, permette una loro maggiore ossigenazione, determinando inoltre una parziale incomprimibilità della cassa toracica. Prima della scoperta dello straordinario meccanismo noto come blood-shift, non furono pochi i medici che nel passato misero in guardia gli apneisti che si contendevano il primato delle profondità, esortandoli a non superare la profondità di 50 metri, oltre la quale avrebbero visto irrimediabilmente la propria cassa toracica collassare, schiacciando i polmoni e determinando la morte. Nessuno poteva prevedere, all'epoca, questa caratteristica così particolare, questa peculiarità che accomuna i soli mammiferi capaci di immersioni alle grandi profondità, questo singolare privilegio concesso esclusivamente ai Cetacei, ai Pinnipedi e… all'Uomo.

Nel secolo scorso il pescatore greco di spugne Haggi Statti, visitato da equipes mediche prima di dare inizio al suo tentativo di immergersi a 77 metri di profondità per recuperare l'ancora incagliata della "Regina Margherita", in superficie si rivelò incapace di trattenere il respiro per un tempo superiore ai 40 secondi, oltre che affetto da una perforazione timpanica e da un enfisema. Quasi a voler contrastare i deludenti risultati di queste verifiche, disse che sott'acqua era diverso, che sott'acqua si sentiva meglio e che all'aumentare della profondità vedeva aumentare di molto i suoi tempi di apnea.

Fu così che diede inizio ai suoi tentativi di recuperare l'ancora e, alla fine di una serie di immersioni protrattesi a profondità vertiginose, riuscì ad assicurare ad una fune l'anello dell'ancora, che poté così essere recuperata dalla nave-appoggio.

Alla base delle conoscenze oggi acquisite, l'incredibile impresa di Haggi Statti è spiegabile con due fenomeni fisici (oltre che, ovviamente, con le indubbie doti apneistiche del pescatore greco, almeno in profondità). Il primo è quello già ricordato del blood-shift, mentre il secondo è quello legato all'effetto della pressione idrostatica sulle pressioni parziali dei gas polmonari.

Scontato nella sua formulazione fisica, il fenomeno dell'aumento delle pressioni parziali dei gas polmonari comporta imprevisti risvolti a livello della funzionalità dell'organismo immerso.

Un essere vivente che respira in superficie immette nei polmoni un gas composto approssimativamente per 1/5 di ossigeno; i restanti 4/5 sono composti in massima parte da azoto, inerte ai fini vitali, ed in misura molto piccola da gas presenti in ridottissime quantità, fra i quali l'anidride carbonica. Il gas necessario alla respirazione è l'ossigeno, che al livello del mare (alla pressione di 1 atmosfera) è presente con una pressione parziale di 1/5 di atmosfera (0.20 atm). Scendendo in profondità, malgrado il progressivo ed inevitabile impoverimento di ossigeno dovuto all'attività metabolica, sopraggiunge l'effetto della pressione idrostatica che, comprimendo la cassa toracica, determina un aumento di pressione del gas polmonare. Così - supponendo per semplicità che non vi sia stato alcun consumo di ossigeno - a 10 metri di profondità, alla pressione assoluta di 2 atmosfere (1 dovuta alla pressione atmosferica ed 1 dovuta alla pressione della sovrastante colonna d'acqua di 10 metri), la pressione parziale dell'ossigeno sarà eguale a 0.4 atmosfere; a 20 metri sarà di 0.6 atmosfere, a 30 sarà di 0.8, ecc. In poche parole, l'effetto della pressione totale sull'organismo determina un aumento della pressione parziale di ognuno dei gas contenuti nei polmoni, e spiega il maggior benessere all'aumentare della profondità, descritto da Haggi Statti ai medici increduli in un'epoca in cui non si aveva la minima idea di tutto ciò.

Ovviamente, il consumo di ossigeno da parte dell'organismo determina una costante diminuzione della sua pressione parziale, ma questa rimane, in profondità, molto a lungo al di sopra della soglia critica di circa 0.07 atm. Tale valore potrebbe essere raggiunto in fase di riemersione da un'apnea prolungata, quando, attraversando strati d'acqua a pressione inferiore, il rischio di sincope da ipossia - con conseguente svenimento e morte per annegamento - aumenta considerevolmente, ma, trovandosi a profondità modeste, un aiuto da un proprio simile può essere risolutivo, oltre che poco impegnativo.

Quello dell'aumento delle pressioni parziali dei gas polmonari è un fenomeno esclusivamente fisico e non, a differenza del blood-shift, fisiologico, per cui si verifica indifferentemente in qualsiasi volume di gas portato in un modo qualunque ad una determinata pressione; ciò di cui è bene tener però conto è che tale fenomeno si verifica con risultati apprezzabili, a livello metabolico, solamente a profondità che sono appannaggio esclusivo dei mammiferi acquatici più adattati. E, unica strana eccezione, dell'uomo.

Un'altra caratteristica che permette di massimizzare l'impiego dell'ossigeno contenuto nei polmoni è costituita dalle contrazioni diaframmatiche, cui è soggetto ogni essere umano nel corso di un'apnea prolungata. Quando l'ossigeno che perviene alle cellule scende al di sotto di un certo limite, il diaframma si contrae ritmicamente, rimescolando l'aria nei polmoni e facendo pervenire a livello dei loro alveoli nuovo gas non ancora completamente utilizzato. Si tratta di un riflesso involontario - per quanto, entro certi limiti, controllabile - che funge, oltre che come mezzo per accedere alla "riserva" residua di ossigeno contenuta nei nostri polmoni, anche come campanello d'allarme, in quanto indica il pericoloso avvicinamento della soglia limite di ossigeno al disotto della quale il rischio di sincope diventa considerevole.

Che dire poi dello strano riflesso da immersione, un riflesso fisiologico che stimola l'organismo umano ad aumentare i tempi di apnea, non appena il corpo viene immerso nell'acqua? Al pari delle Balene e dei Capodogli, anche noi tendiamo spontaneamente, da immersi, a ridurre il ritmo cardiaco, il che permette di massimizzare il risparmio di ossigeno.
E' passata davvero tanta acqua sotto i ponti, dai tempi di Haggi Statti, ed oggi vediamo apneisti in possesso di idonea preparazione e di mezzi idonei immergersi e strappare il cartellino dei 150 metri di profondità come se niente fosse, quasi che l'uomo fosse programmato per scendere negli abissi, più ancora che per correre, saltare…

In qualsiasi ambito, fuorché in quello subacqueo, le prestazioni dell'organismo umano risultano deludenti, se paragonate a quelle di qualsiasi animale; in ambiente sommerso, invece, l'uomo prevale su tutte le altre specie di mammiferi, collocandosi a pieno titolo al fianco di quelli che hanno fatto dell'esistenza in ambiente acquatico la loro caratteristica esclusiva.

Questa straordinaria particolarità permetterebbe di formulare l'ipotesi che la vita in ambiente acquatico abbia contrassegnato la storia del genere umano per un periodo molto lungo, al punto da restare retaggio comune di ogni essere umano dei nostri giorni, dall'aborigeno australiano all'abitante delle favelas brasiliane, dal berbero nordafricano al civilizzato cittadino di Tokio….

Di tale fase, di cui non resta alcuna testimonianza nei reperti paleontologici, sono in realtà piene le mitologie di moltissimi popoli del mondo, che narrano di esseri acquatici molto simili agli esseri umani o persino di "uomini" a tutti gli effetti che, in possesso di straordinarie attitudini alla vita in ambiente sommerso, sono entrati nella leggenda. Così, la leggenda greca di Glauco parla di un mitico pescatore che, dopo aver mangiato un'alga dalle proprietà miracolose, divenne immortale e, divenuto un essere acquatico, fu venerato come un dio marino.

 

 

Proviene invece dall'Italia meridionale la leggenda di "Colapesce", che si può riassumere come segue:
"Cola o Nicola era un ragazzo siciliano (pugliese per 4 autori su 25) che si dilettava continuamente a sguazzare nel mare, e capace di resistere un tempo inusitato sott'acqua. La sua figura, non sempre descritta, sembra essere anfibia, anche se non di vero e proprio uomo-pesce, perché a volte sono citati piedi e mani palmate. Un re (in genere Federico II) lo vuole mettere alla prova, e lo incita ad immergersi nei gorghi per la descrizione del mondo sottomarino. La tentazione di un gioiello in premio (per lo più un anello), gettato in mare, vince le resistenze di Cola, che si immerge, e torna, raccontando le meraviglie viste. Il re tenta di nuovo, gettando altri ori, ma questa volta Cola non torna più." (da Massimo Izzi, op. cit,. vol. 3°)

 



Al pari di altre, la leggenda di Cola potrebbe aver enfatizzato un fenomeno di atavismo eventualmente verificatosi prima del XII secolo (la tradizione scritta, iniziata probabilmente ad opera del trovatore Raimon Jordan, risale infatti a non oltre il XII secolo).

Sicuramente degno di nota è il fatto che, stando a cronache anche recenti, in alcune zone gli avvistamenti di esseri acquatici antropomorfi si sarebbero protratti fino a tempi poco meno che contemporanei.

E' stata formulata l'ipotesi che il mito delle sirene sia derivato dal semplice avvistamento, da parte dei marinai delle navi impegnate nei viaggi di esplorazione, di esseri viventi all'epoca sconosciuti, come Dugonghi e Lamantini, che sarebbero riemersi dalle acque con una "capigliatura", costituita da alghe galleggianti, che li avrebbe resi vagamente simili agli esseri umani. E' ovvio che il mito delle sirene di Ulisse rimane escluso da questa ipotesi, visto che i suoi viaggi non si svolsero nell'areale di detti Sirenidi ; la Foca del Mediterraneo, la Foca monaca, sicuramente ben conosciuta dai suoi marinai, difficilmente potrebbe essere stata la causa di una svista così grossolana ( mancando inoltre, nel Mare Nostrum, alghe che formano delle comunità galleggianti ). Se l'esistenza in epoche passate, lungo le coste sovietiche orientali, della Ritina di Steller, un gigantesco Sirenide estinto in tempi recenti, potrebbe essere invocata a giustificare un'analoga leggenda lungo le coste del mar di Bering, cosa dire delle popolazioni stanziate nelle sconfinate vastità della Siberia, le quali pure riportano di esseri acquatici antropomorfi che avrebbero abitato le acque dei gelidi fiumi della regione ? I popoli slavi hanno infatti lasciato una molteplicità di resoconti in tal senso.

  La tabella che segue, necessariamente incompleta, riporta i nomi con cui erano conosciute presso i vari popoli le diverse entità descritte come simili agli esseri umani ma viventi in ambiente acquatico. Come si vede, si tratta di una tradizione che ha caratterizzato località diversissime ed anche molto lontane le une dalle altre, come non mancano zone in cui la caratteristica della vita in ambiente acquatico è attribuita ad una molteplicità di esseri anche diversi fra loro ( è il caso, ad es. della Grecia, del Marocco, del Brasile e del Madagascar ), fatto questo che indurrebbe a spezzare una lancia a favore dell'autenticità della tradizione.

 

Nome dell'individuo
o della popolazione
"acquatica"

Località o popolo
depositario della
tradizione

Nome dell'individuo
o della popolazione
"acquatica"

Località o popolo
depositario della
tradizione

Acheloos

Grecia

Njai blorong

Giava

Aicha kandicha

Marocco

Oannes

Mesopotamia

Angalapona

Madagascar

Oiarà

Brasile

Apkallus

Mesopotamia

Olokun

Nigeria

Bachue

Colombia

Orehu

Guiana

Bunyip

Aborigeni australiani

Qaluneq

Eschimesi

Catao

Filippine

Qandisa

Marocco

Glaucos

Grecia

Roussalka

Popoli slavi

Haqwe

Boscimani

Sansandryi

Senegal

Harun

Marocco

Sedna

Eschimesi

Iemanjà

Brasile

Sirene

Regioni mediterranee

Ipupiara

Brasile

Tangaroa

Polinesia

Kalanoro

Madagascar

Tikoloshe

Africa meridionale

Kalopaling

Eschimesi

Tinirau

Polinesia

Likanaja e marrajka

Aborigeni australiani

Tritoni

Grecia

Mokorea

Polinesia

Uissuit

Eschimesi

Mounou

Senegal

Vodianoi

Popoli slavi

Nereus

Grecia

Woadd el-uma

Sudan

Ndriambarivano

Madagascar

Yemaja

Alto Volta

"Moi, j'évolue de façon régressive" ( René Laurenceau )

 

Se le ipotesi fatte fossero verificate, si rileverebbe nell'evoluzione dell'uomo un carattere peculiare, in quanto, mentre tutti i mammiferi marini hanno effettuato un riavvicinamento all'ambiente acquatico, l'uomo, unica specie, sarebbe passato attraverso questa fase per poi tornare nuovamente in ambiente terrestre. Senza per questo rinunciare ad una "eredità" costituita da innumerevoli adattamenti alla vita nell'acqua, una reliquia pressoché inalterata che ci portiamo dietro, inconsapevoli, in qualsiasi momento della nostra giornata.

 

Sandro D'Alessandro

 

 

BIBLIOGRAFIA

M.Barberini, O.Martinelli, C.Menotti, E.Milan - Manuale Federale per i Corsi di Immersione - FIAS, Milano 1999.
P. Casanova, A.Capaccioli, L.Cellini - Appunti di zoologia venatoria e gestione della selvaggina - Edizioni Polistampa, Firenze 1993.
Bernard Heuvelmans, Boris Porchnev - L'homme de Neanderthal est toujours vivant - Ed. Plon, Paris, 1974.
Massimo Izzi - Dizionario dei mostri - L'Airone editrice, Roma 1997.
René Laurenceau - Nègres blancs - Bipedia n° 22, Gennaio 2004.
Jacques Mayol - Homo delphinus - Ed. Martello, Milano 1979.
Erik Sidenbladh - Nascere nell'acqua - Ed. red, Como 1988.
Alberto Simonetta - Ecologia - Universale Scientifica Boringhieri, Torino 1975.

 

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