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			Estratto 
3 - Il patrimonio orale 
diffuso nell'area dello stretto e largamente partecipato dall'intera comunità messinese, almeno fino a quando il sisma del 1908 non determinò una mutazione 
antropologica nella cultura tradizionale locale, concerne fra le altre due 
figure, Colapesce e Giufà, che appaiono a vario titolo legate alla presenza dei 
Normanni in Sicilia. 
 
Colapesce, giovane messinese 
secondo la maggioranza delle redazioni a stampa e versioni orali della leggenda 
a noi pervenute, è un essere che partecipa della duplice natura di uomo e di 
pesce a seguito di una maledizione scagliatagli dalla madre, esasperata per la 
sua eccessiva passione per il mare.  
Il tema leggendario, nella 
sua apparente semplicità, è ricco di antecedenti classici la cui presenza è da 
ricondurre ad una migrazione di temi analoghi dall’Ellade  e dal mondo egeo-minoico alla Magna 
Grecia e successivamente al meridione d’Italia (Napoli, Puglia, Calabria, 
Sicilia) ed alla più vasta area del Mediterraneo occidentale (Francia e Spagna), 
e trae al contempo molti suoi motivi da tradizioni nordiche la cui penetrazione 
in Sicilia può essere ascritta ai Normanni.  
Ho accennato poc’anzi al 
ruolo fondamentale svolto dai Normanni per quanto concerne, sul piano culturale 
contestuale alla loro espansione politica, la migrazione di molte tematiche 
favolistiche, tra le quali quelle connesse alla tradizione epica carolingia ed 
arturiana. Secondo Anita Seppilli in tale trasmissione di elementi epici, che 
poi dal Sud si sarebbero espansi anche verso il Nord Italia, rientrerebbero 
anche “alcune leggende agiografiche intrise di miti e riplasmate su matrici 
antichissime”. 
Di fatto, la vittoriosa 
penetrazione dei Normanni alla riconquista della Sicilia, che proprio da Messina 
prese l’abbrivio con l’entrata trionfale nella città dello stretto del Gran 
Conte Ruggero,  è costellata di 
prodigi, interventi salvifici di santi e figure numinose, fondazioni di luoghi 
sacri, ed è caratterizzata da una sostanziale riscrittura organizzativa del 
territorio siciliano, cui offrirono un contributo decisivo i Basiliani. L’area 
messinese in particolare venne così a costituirsi come luogo di incontro e di 
mescolamento di elementi culturali sia nordici che orientali (greci ed armeni in 
specie) i quali finirono col sovrapporsi non sempre espungendoli da sé, ai 
preesistenti elementi latini, bizantini ed arabi.   
Si può senza tema di 
smentita affermare che tale grumo magmatico di miti e di credenze si sia 
mantenuto integro ed abbia fortemente connotato la cultura tradizionale 
messinese almeno fino alla dominazione spagnola, la quale veicolò nuovi e non 
meno interessanti modelli culturali. 
Per certi versi il passaggio 
dalla dominazione araba a quella normanna portò con sé un indubbio mutamento di 
prospettive culturali, la cui traiettoria acculturativa può essere 
emblematicamente indicata nel cambiamento intervenuto nella novellistica 
popolare: dalla figura di Giufà, eroe orientale bizzarro e lunatico, a quella di 
Re Artù, dall’impronta marcatamente solare.   
Nella cultura tradizionale 
siciliana le surreali e tragicomiche storie di Giufà costituiscono nel loro 
complesso una sorta di ironico contraltare alla drammatica tragicità 
dell’esistenza, proprio come le farse di 
Nofriu e di 
Peppinninu, spezzando la tensione delle 
assai serie vicende paladinesche, riescono ad allentare, suscitando il riso da 
parte degli spettatori, il groviglio di passioni che l’opra dei pupi rappresenta sulla scena. 
Il carattere liberatorio e addirittura terapeutico del riso è strettamente 
connesso all’originario significato sacro di tale fondamentale espressione 
umana. 
Giufà possiede tutte le 
caratteristiche del demiurgo trickster, dell’essere mitico che è al 
contempo personaggio creativo e buffone,  
sacro e misterioso, come tale oggetto di 
tabu, che con i propri fraintendimenti 
scardina e mette in crisi le ordinate corrispondenze tra parole e cose, e così 
facendo in qualche modo rifonda sempre di nuovo il mondo. 
Il riso, nei contesti sopra 
richiamati, appare baluardo estremo contro la morte, segnale forte e pregnante 
della vitalità che attraversa la storia umana e che di essa demistifica i falsi 
idoli, le false verità, i saperi e le certezze tradizionalmente consolidati e 
supinamente accettati, nonché lo stesso carattere univoco e monolitico del 
linguaggio, laddove tale univocità e monolitismo si traducano in ottusa 
cristallizzazione, in rinuncia definitiva alla sperimentazione e alla ricerca, 
in passiva cecità di fronte alla straordinaria polisemia del reale. 
Così, Giufà appare eroe 
levantino, arabo, siciliano: a fronte della inattaccabile serietà degli eroi 
nordici, dei modelli culturali importati dai Normanni, Giufà testimonia che 
nella sfera culturale nord-africana e islamica, della quale anche la Sicilia 
partecipa, l’assoluto si lascia scoprire solo a condizione di essere disposti a 
sperimentarne le molteplici aporie.   Come un maestro Zen, Giufà impartisce i propri insegnamenti compiendo atti ed elaborando stratagemmi linguistici che sono fonti di illuminazione per chiunque ad essi assista, squarciando alla stregua di un fulmine la caligine che avvolge il nocciolo dell’esistenza. Mentre Artù, eroe solare, è l’esponente di un universo serio, per nulla rabelaisiano, in cui la preminenza rimane per sempre accordata alla conoscenza, ancorché sapienziale, dell’unica grammatica possibile attraverso la quale conoscere e decrittare il reale, ossia quella del rito, dell’ordine e del potere, Giufà è il detentore di un sapere tutto lunare, basato sulla scaltrezza, sulla capacità di riscrivere la sintassi del mondo attingendo al potere rivoluzionario della letteralità. (....) 
			Sergio Todesco | 
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